A Better Tomorrow 2018

Voto dell'autore: 3/5

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Trovare il regista di tre film con Jackie Chan (seppure probabilmente tra i migliori dell’ultimo periodo, ovvero Little Big Soldier, Police Story 2013 e Railroad Tigers) alle redini, trentadue anni dopo, del remake del classico di John Woo A Better Tomorrow, non può che generare un motivato senso pregiudizievole, specie dopo la fallimentare versione coreana del 2010.

Male ma non malissimo. Poteva andare esponenzialmente peggio.

Va subito detto che l’errore più grande è quello del casting. Certo, era davvero difficile eguagliare ruoli e rispettivi attori del calibro di Chow Yun-fat, Leslie Cheung, Ti Lung e Waise Lee e la scelta funziona principalmente nel versante dei villain con un Lam Suet che riesce a ritagliarsi una volta tanto un ruolo completo da antagonista e Yu Ai-Lei nei panni che furono di Waise Lee; attori comunque senza un particolare curriculum alle spalle (escluso Lam Suet, appunto) e la cui direzione non brilla per capacità.

Si prenda atto però che almeno la prima parte del film funziona e riesce a tratti a sorprendere nel concept e nello svolgimento narrativo. Il castello di carte si sgretola lentamente nella seconda, troppo lunga, che perde ogni slancio qualitativo e vitale nel lungo finale abbastanza raffazzonato.

L’idea in sé non era nemmeno sciocca; anziché remake diretto, il film racconta di nuovo la storia originale ambientandola in un presente in cui il film di Woo esiste e di cui se ne scorgono le tracce continue in poster e omaggi sparsi continuamente lungo la metrica. Ma il più delle volte, più che un remake o un omaggio a Woo il film sembra un tributo maniacale e quasi morboso all’attore e cantante Leslie Cheung i cui brani e il cui volto tappezzano il film dall’inizio alla fine; cantati da artisti di strada, dai protagonisti al karaoke, elargiti da un vecchio vinile che gira su un grammofono. Bene così perché quelle rare volte che Cheung si fa da parte, le partiture musicali sostitutive sono di pessima fattura. Non è presente invece inspiegabilmente il brano classico iconico della saga.

L’altra scelta interessante è quella scenografica. D’altronde questo è un A Better Tomorrow mandarino e si allontana da Hong Kong senza però ambientarsi in una Cina facile e riconoscibile. La maggior parte del film è infatti ambientata tra il Giappone e la città marittima cinese di Qingdao, nella provincia dello Shandong, pittoresco luogo che a causa di un periodo coloniale tedesco (che l’ha iniziata alla produzione della birra, la nota Tsingtao è originaria di qui) ha assunto una resa architettonica particolarmente suggestiva, inclusiva di numerosi percorsi sotterranei militari, nel film utilizzati dai protagonisti per rocambolesche fughe. E’ anche la città natale dello stesso regista che è tornato a casa per sfruttarne gli angoli più suggestivi per il film.

Non particolarmente brillanti le sequenze d’azione; il film funziona maggiormente nella partitura narrativa della prima parte ma è penalizzato da attori e personaggi che non posseggono mai il carisma né il character design dei loro predecessori. La prima ora si rivela un buon film se si riesce a non immaginarlo come un remake di un classico di tale portata, ma la seconda sembra sfuggire di mano al regista sviluppandosi male, con momenti di maniera e altri decisamente sconfortanti. Certo, poteva comunque andare decisamente peggio.

 

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