62° Mostra Internazionale di Arte Cinematografica di Venezia


2005-Mostra VeneziaVenezia, 62° edizione

30 Agosto - 10 Settembre 2005 )

Quasi un’edizione estiva del “Far East Film Festival” di Udine.

L’edizione 2005 del festival veneziano è stata una vera e propria manna per i fans e studiosi di cinema asiatico. Una versione ridotta della scorsa “storia segreta del cinema bis italiano” e un palinsesto a tratti interessante ha lasciato spazio ad una indigestione di cinema dell’estremo oriente. Tre erano le fonti da cui abbeverarsi: Primo, la retrospettiva voluta con forza dal direttore Marco Muller, “la storia segreta del cinema asiatico”, retrospettiva che faceva eco a quella dello scorso anno e che a quanto pare resterà un’evento fisso e ogni anno tematico. Seconda, la forte presenza all’interno degli altri spazi della mostra di film almeno sulla carta “grossi” ed importanti. Terzo, l’arrivo abbastanza numeroso di ospiti.

L’evento era gravato da una specie di stato d’assedio con ciurme di poliziotti armati e metal detector ad ogni ingresso. Sulla carta poteva andare peggio, le file scorrevano nonostante le insistenze talvolta esagerate dei “guardiani dei portali” che si intestardivano nei controlli di custodie, termos, macchine fotografiche o addirittura il cellophane dei panini.

La passerella è stato il fulcro e il metro di giudizio dello stato attuale del cinema in Italia. Colme di bambine frignanti e orgasmatiche per i soliti due divetti, vuote per altri artisti di altissimi livelli (ma questa è la norma), le solite battutine razziste sugli ospiti asiatici, poca organizzazione di quello che lì sopra doveva accadere tra fotografi urlanti e auto che arrivavano a bordo ingresso, annientando così l’utilizzo base della stessa. Altra consapevolezza che la passerella ha fatto emergere è l’ignoranza dei distributori italiani e la loro totale inconsapevolezza di quello che comprano e distribuiscono. Il paradigma di questa situazione è stata la presentazione ufficiale di Initial D. La rigidità nelle priorità di ingresso a fatto si che la sala fosse mezza vuota. Ma quando il produttore si è reso conto di avere tra le mani un film comunque importante e una star del calibro di Jay Chou ha tentato in tutti i modi di evitare la figura canina trascinando spettatori dentro la sala a mano, prelevandoli dal bordo passerella e costruendo ad hoc un nucleo di fans cinesi urlanti. Una scena patetica avvenuta più di una volta.

Patetica anche la figura becera fatta dal 90% dei giornalisti presenti in loco. Essendo praticamente privi di una cultura cinematografica che vada oltre l’accademico sembravano fare a gara a chi dovesse scrivere svarioni più grandi e perle di demenza e ignoranza ogni volta che si doveva pubblicare una riga sul cinema asiatico. A tal proposito va notato come il “daily” di Ciak si sia rivelato una lettura quasi comica sempre farcito di refusi, errori anche grossi e grossolani. Ma non sono di certo stati gli unici. I più saggi evitavano di parlare di cinema ed erano pronti a tirare fuori qualche classico luogo comune che va di moda in questo periodo sull’”invasione cinese” e su come anche nel campo cinematografico i “cinesi” ci stiano venendo a depredare. Razzista, fastidioso, di cattivo gusto e patetico.

La Storia Segreta del Cinema Asiatico.

Accompagnata da un corposo e ottimo catalogo che copre la zona cinese della retrospettiva, quasi una versione riveduta e corretta del pionieristico “Ombre Elettriche – Saggi e Ricerche sul Cinema Cinese” del 1982 sempre curato da Marco Muller, ha avuto l’unico difetto di essere presentata in una sala assolutamente piccola, la sala Volpi. In quanto a capienza era ottima e perfetta, ma dotata effettivamente di uno schermo troppo minuto per la qualità e potenza visiva dei film proiettati, tenendo presente che ci sono stati spettatori che hanno praticamente trascorso i 10 giorni di festival lì dentro.

Effettivamente pochi e in netta minoranza i film cinesi, una quindicina, mentre la bilancia pendeva sui giapponesi che hanno fatto la parte del leone con una buona quarantina di titoli.

Sui titoli cinesi nulla da dire, Muller sa il fatto suo, ogni titolo era ben calibrato, solo classici hanno illuminato lo schermo della sala Volpi.

Spring in a Small Town (Xiaocheng Zhi Chun) di Fei Mu, un classico tra i classici era il titolo d’obbligo e chiave di porta della rassegna. Seguivano a ruota Princess Iron Fang (Tieshan gongzhu) di Wan Laiming e Wan Guchan, ipnotico primo lungometraggio animato sonoro cinese, attinge dal romanzo classico Viaggio in Occidente e si sviluppa in modalità frenetica e surreale pari allo stile di scrittura della fonte letteraria. Tra questi due estremi si snodava un percorso composto di soli classici tra cui vale la pena citare lo straordinario Wutai Jiemei (Sorelle del Palcoscenico) di Xie Jin, epopea propagandistica permeata di tutte le forme di arte cinese, una proiezione indimenticabile. O come dimenticare lo struggente e straziante melodramma disperato Tao Li Jie (Le Sventure del Pesco e del Pruno) di Ying Yunwei, l’horror di Maxu Weibang, Yeban Gesheng (Canto a Mezzanotte) fino ad arrivare ad una memorabile proiezione del capolavoro di King Hu Valiant Ones (Zhonglie Tu) in una copia cristallina dopo che per anni lo abbiamo visto su copiacce VHS di quarta generazione?

Se la selezione cinese non aveva una falla qualitativa, meno equilibrata era la selezione nipponica, giocata sulla quantità, ma al contempo comunque entusiasmante e fonte di visioni inedite e imperdibili. Scegliere un percorso coerente è a dir poco impossibile, si può quindi seguirne uno emotivo che inserisce come film simbolo la proiezione a sorpresa del rarissimo Horror of the Malformed Man di Teruo Ishii (già presentato ad una vecchia edizione del Far East Film Festival). In tributo al regista recentemente scomparso è stato scelto proprio questo anomalo e estremo film, una pietra di scandalo della cinematografia giapponese. A presentare in pompa magna il film, i ragazzi del CEC di Udine, il direttore della mostra e il regista Shinya Tsukamoto.

Dopodichè un nome riassume la sezione più importante della retrospettiva: Kinji Fukasaku. Dalle origini fino ad inizi degli anni ’80 un numero elevato di film della carriera del regista è stata mostrata agli occhi avidi degli spettatori. Classici come Battle without Honour and Humanity (primo episodio di una serie in cinque parti), il crepuscolare e disperato Graveyard of Honour, l’ intenso Cops VS Thugs, il giovanile Okami to buta to ningen e il più recente chambara Yagyu ichizoku no inbo. Ma perché fermarsi qui? Per continuare sulla strada a dir poco entusiasmante a livello qualitativo di uomini machisti e virtuosi c’erano i film di Seijun Suzuki e un paio di episodi sparsi della vecchia saga di Zatoichi. Per venire incontro ai bisogni femministi delle fanciulle spettatrici arrivavano poi due episodi (nemmeno i migliori però) di un’altra saga classica però tutta al femminile, Red Peony Gambler di Kato Tai, con protagonista la splendida Junko Fiju. Non paghi di tutto ciò, come non sorprendersi di fronte ad una commedia giovanile sorprendente del regista maestro dell’horror Nobuo Nakagawa, il suo Enoken no gambari senjutsu e il classico della paura Tokaido Yotsuya Kaidan? Poi? Poi altri classici più riconosciuti come i film di Mizoguchi, Yamanaka Sadao (tra cui un Tange Sazen) e alcuni Ito Daisuke. Insomma un programma davvero incredibile. Di tanto in tanto qualche ospite faceva anche capolino a presentare i film (come John Woo), evento accaduto però assai raramente rispetto soprattutto allo scorso anno in cui Joe Dante e Quentin Tarantino erano sempre in sala.

Al di fuori della Sala Volpi c’era un intero mondo filmico da esplorare. Peccato il dover disertare molti film minori a causa dell’assiduità di presenza alla retrospettiva ma non siamo mancati in sala in occasione dei film più attesi.

Innanzi tutto il film d’apertura, l’evento Seven Swords di Tsui Hark inaugurato da una cena privata notturna nella spiaggia dell’Hotel Excelsior alla luce dei fuochi pirotecnici e sulle note della ost del film. Del film abbiamo già parlato tantissimo, un’opera rivoluzionaria, coraggiosa e imperfetta da guardare e studiare nell’attesa di un sequel e/o di una versione estesa che possa dare compimento all’opera voluta dal maestro.

Avevamo già visto Initial D, film ispirato all’omonimo manga/anime; è una delusione e un’occasione mancata, un circo di attori incapaci e fuori ruolo su cui spicca un Anthony Wong prossimo alla santità.

Sympathy for Lady Vengeance di Park Chan-wook. Chi ne parlava addirittura male, chi lo paragonava a Old Boy chi non lo andava a vedere timoroso di non capire nulla della trama perché non aveva visto i primi due capitoli della trilogia (giuro, è vero!). Invece il film è una fastidiosissima e immensa fetta di cinema talmente diverso da Old Boy (e da Sympathy for Mr. Vengeance e da ogni altra cosa esistente) da rendere impotente ogni paragone.

E poi la rivelazione su cui, a dire la verità riponevamo le nostre più segrete speranze e i nostri più silenti timori, Yokai Daisenso di Takashi Miike. Di nuovo il regista mostra il proprio talento nel rievocare una mitologia assai complessa e con una tradizione storica e tre film alle spalle assai duri da affrontare. Invece la sfida è totalmente vinta e Miike dirige un film per ragazzi con una leggiadria, tenerezza, capacità e senso del meraviglioso da far impallidire, ricordando il cinema per ragazzi USA degli anni ’80, quando Hollywood riusciva ancora a meravigliare e a commuovere. Così come fa bene al cuore vedere Bunta Sugawara, il giovane yakuza passionale dei film di Fukasaku della Sala Volpi interpretare un saggio e tenero nonno nel film.

Ancora? Ancora. Il dittico autoriale di Peter Chan (Perhaps Love) e Stanley Kwan (Everlasting Regret), due film contaminati da quel mostro che è la co-produzione con la Cina. Piacevole ma inutile il film di Chan, spettacolare e esteticamente ricercato con uno stile che ricorda i film dei Pang Brothers (che Chan di solito produce), con tanti attori bravi e belli (Zhou Xun, Takeshi Kaneshiro, Jacky Cheung ). Il film di Stanley Kwan è stato accolto come un capolavoro preventivo facendo gridare al miracolo per il montaggio. Sarà, ma secondo me il coming out del regista e la sua revisione tematica della propria filmografia ha fatto più danni che altro. Sicuramente un interessante esperimento, personalmente non un film memorabile, racconta storia e paesi chiudendosi dentro spazi chiusi e angusti e appiccicandosi a corpi e visi fortunatamente straordinari come quello di Sammi Cheng che di nuovo modella il proprio fisico invecchiando e aumentando di dieci chilogrammi di peso.

Final Fantasy VII, di cui avevamo avuto un assaggio lo scorso anno è il film di animazione ispirato all’omonimo videogioco. Grafica e animazioni spettacolari, per un film che farà la gioia dei fans del videogame. Mentre il pubblico casuale poco riuscirà a penetrare di questa visionaria mitologia e di un immaginario in cui di punto in bianco strani personaggi entrano in scena saltellando divertiti e ammiccanti. Un prova immensa di tecnica comunque.

Grossa commozione e chiusura ideale del festival, il leone d’oro alla carriera al maestro dell’animazione Hayao Miyazaki.

“Se chiedete a qualsiasi animatore del mondo, a chiunque fa questo lavoro chi è Hayao Miyazaki, bhè, questo vi risponderà, Dio!”

Con questa frase il presidente della mostra Marco Muller consegnava il premio al regista. E il festival si illuminava di alcune proiezioni immense. Sullo schermo delle sale veneziani passano le immagini cristalline di classici come Porco Rosso, Nausicaa of the Valley of the Wind e il corto .

E il festival si spegneva con dolcezza in una placida dissolvenza in nero.

Nell’attesa del prossimo anno e di una desiderata Storia segreta del cinema asiatico – parte seconda.

(Tutte le foto della mostra di Senesi Michele, Martina Leithe Colorio e Samuele Bianchi)