Shaw Brothers: Heroic Grace


2007-shawbrBologna, retrospettiva Shaw Brothers 

( 20 Marzo -30 Marzo 2007 )

Non credevo che in vita mia sarei mai stato testimone di un evento del genere. La Cineteca di Bologna apre le porte agli Shaw Brothers. Certo, con tutte le dovute precisazioni e i distinguo del caso, ma quel che importa è che i classici della cinematografia più bella del mondo abbiano potuto godere di una seconda giovinezza su grande schermo grazie al restauro della Celestial Pictures, della Ucla Film e Television Archive che ha fornito le copie. 
 
Unica pecca: i responsabili della rassegna "Heroic Grace" hanno ritenuto evidentemente che kung fu e cinefilia fossero due termini poco conciliabili, ipotizzando che il pubblico potenziale di questi film fosse costituito esclusivamente da praticanti d’arti marziali. Roba che neanche negli anni ’70, quando in Italia uscivano pellicole con titoli del tipo Con Una Mano ti Rompo, con Due Piedi ti Spezzo, oppure Cin-fu l'Uomo d'Acciaio – Vado, li Spacco e Torno! esistevano di simili pregiudizi. 
A ciò si deve la poca pubblicità riservata ai circuiti “cinéphile” tradizionali e concentrata invece nelle palestre, la previsione di riduzioni e sconti per i membri di associazioni sportive e soprattutto l’organizzazione delle proiezioni a orari per lo meno bizzarri, a quanto pare per lasciare la possibilità agli allievi di venire prima e dopo gli allenamenti (!!!). 
Ciliegina sulla torta: ogni film, ad eccezione di quello inaugurale, è stato preceduto dall’intervento di un esperto d’arti marziali. Come risultato, le sale erano quasi sempre vuote e gli unici a frequentare gli appuntamenti sono stati solo gli allievi degli intervenuti alle discussioni. 
 
Ora, posto che la maggior parte delle introduzioni si è rivelata piacevole e intrigante per approfondire alcuni aspetti della cultura cinese e giapponese, ciò non toglie che presentare i film in tal modo è quanto meno svilente. Significa non concedere a questi titoli neanche una dignità autonoma di opera artistica e di considerarli solamente per l’aspetto “folkloristico”, esotico o di moda che li circonda. 
Non so bene se ciò si possa (o si debba) chiamare razzismo oppure ignoranza (o semplice paraculaggine nel seguire le tendenze del momento). Ma questa è l’Italia, signori, e anzi mi piacerebbe sapere se il Museo del Cinema di Torino, che ha organizzato la medesima rassegna quasi in contemporanea con Bologna, abbia trattato con maggior rispetto i titoli in cartellone. 
Ad ogni modo ciò che conta è il risultato concreto, vale a dire la proiezione effettiva delle pellicole, quindi ben vengano iniziative di questo genere (anche perché da noi rarissime). 
Tanto, una volta visto lo scudo degli Shaw Bros. – lo stesso di cui si è illegittimamente appropriato Tarantino per il suo Kill Bill – scintillare nell’oscurità della sala in tutta la bellezza del formato originale restaurato, ci si dimentica d’ogni cosa. 
 
Qui di seguito riporto il programma completo e qualche piccola considerazione (peraltro da profano) sui film visti (ho saltato solamente The Legendary Weapons of China).
 
 
- Martedì 20 marzo, ore 22.00: The Boxer from Shantung
copia restaurata da Celestial
introduce Stefano di Martino (scrittore, saggista, esperto di cinema di Hong Kong e di arti marziali)

- Mercoledì 21, 22.00: My Young Auntie 
copia restaurata da Celestial, 
introduce Tu Los, medico agopuntore e maestro di kung fu.

- Giovedì 22, 19.45: The Legendary Weapons of China.

- Martedì 27, 22.00: King Boxer
 copia restaurata da Celestial
, introducono Bruno Baleotti, Ferdinando Balzarro e Giuseppe Perlati, maestri di karate.

- Mercoledì 28, 17.45: The Five Venoms 
copia restaurata da Celestial
, introduce Alessandro Mattioli, fondatore nel 1985 della scuola d'arti marziali Kayuntao.

- Giovedì 29, 22.00: The New One-armed Swordsman, 
introduce Alessandro Guidi, docente dell'Università Cattolica e direttore del centro studi d'arte estremo oriente di Bologna.

- Venerdì 30, 22.00: The Magic Blade 
introduce Alessandro Mattioli, fondatore nel 1985 della scuola d'arti marziali Kayuntao. 
 
Tutte le copie sono state fornite dalla Ucla Film e Television Archive.


The Boxer from Shantung 
di Chang Cheh, Bau Hok Lai

con Chen Kuan Tai, David Chiang, Cheng Li, Guk Fung

Hong Kong, 1972

Stefano di Martino, l’unico intervenuto alla rassegna che ha fornito un quadro critico dei film, lo ha definito, dal punto di vista tematico, una specie di Scarface alla cantonese. Perché, in effetti, The Boxer from Shantung non è un gongfupian in senso stretto, quanto piuttosto un gangster movie a colpi d’arti marziali (che anticiperà la nascita di un fortunato sottofilone hongkonghese alimentato dal successo del coevo Il Padrino). Un impianto del genere si adatta perfettamente alla visione cinica e disillusa di Chang Cheh: non ci sono eroi virtuosi ma solo corrotti arrampicatori sociali.
Che alla regia ci sia un maestro, e non un semplice mestierante, lo si nota fin da subito. Nel modo ad esempio in cui Cheh presenta il personaggio di Tan a partire da piccoli particolari, come la moneta d’argento e il bocchino d’avorio. L’attenzione per il dettaglio è quasi maniacale, ma sempre funzionale nel tratteggiare caratteri e psicologie (sia pure elementari). Valga da esempio l’utilizzo delle asce per connotare la gang rivale, che sarà poi omaggiata da Stephen Chow in quella summa del genere che è Kung Fu Hustle. Lo scontro finale è folle e disperatissimo e segue un’ineluttabile logica sacrificale (o se si preferisce di vittima della società arrivista e proto-capitalista): di Yuen Chen, che combatte con un’accetta conficcata nello stomaco, si sa fin da subito che è destinato a morire. 
Curiosità: alla realizzazione di questo film collaborò anche un giovanissimo John Woo in qualità di assistente alla regia.

The King Boxer di Jeng Cheong-woh

con Lieh Lo, Chuen Chan, Shen Chan

Hong Kong, 1972

Anche se forse oggi è ricordato – ahinoi – soprattutto perché fonte del celebre effetto sonoro di Kill Bill, Five Fingers of Death (in italiano l’enfatico Cinque Dita di Violenza), conosciuto anche come The King Boxer, è un film fondamentale per diversi motivi. Prima di tutto perché sancisce il primo vero sdoganamento del cinema di kung fu anche in Italia e, con esso, anche l’inizio delle polemiche sulla (presunta) violenza (con annessa “corruzione morale dei giovani”) di queste pellicole. 
In realtà erano spesso i distributori nazionali che calcavano la mano con descrizioni pittoresche e aizzavano il pubblico con flani altisonanti e grandguignoleschi. È rimasta celebre la locandina nostrana realizzata per pubblicizzare il film: un’enorme mano dischiusa a mostrare due bulbi oculari chiazzati di sangue. La scena “incriminata”, quella cioè dell’estirpazione delle orbite, in realtà dura solo una frazione di secondo ed è molto stilizzata (anche perché non si poteva andare più in là, visti i modesti effetti speciali). Nel complesso il film è davvero poco sanguinolento (qualche schizzo verso il finale, ma nulla paragonato agli ettolitri medi di plasma versati in un normale film di Chang Cheh). 
Quel che conta veramente è il valore idealtipico di Five Fingers of Death: in esso trovano posto tutte le caratteristiche canoniche del genere – almeno nella sua versione più ortodossa – sia stilistiche che tematiche. Abbiamo quindi, nella più classica accezione dei racconti di formazione, l’eroe puro e innocente (non cede neanche alle lusinghe della carne) che si allontana dalla casa e dalla famiglia con lo scopo di diventare adulto e guadagnarsi il rispetto del maestro. 
Il racconto si sviluppa secondo motivi iconografici (quasi novelle funzioni di Propp applicate al kung fu movie) scolpiti nella tradizione: lo scontro tra scuole rivali, l’addestramento che parte dal basso (su cui insisteranno anche film occidentali come Karate Kid), l’acquisizione di una tecnica speciale (la “Iron Palm” con tanto di manualetto, anche questo citato in Kung Fu Hustle), la menomazione fisica, il tradimento, il riscatto, il torneo e il duello finale riparatore dei torti subiti. Ma soprattutto la vittoria contro i terribili giapponesi: i maestri di karate sono sempre più brutti, sporchi e cattivi di chiunque altro. Non per niente la frase che suggella il film, pronunciata da Lo Lieh prima di finire il perfido karateka, è: “Avete approfittato troppo dei cinesi”. Più chiaro di così.

My Young Auntie di Lau Kar-Leong

con Lau Kar-Leong, Kara Hui, Hou Hsiao, Lung Wei Wang

Hong Kong, 1981

Per il grande coreografo e regista Lau Kar-Leong (altrimenti noto come Liu Chia Liang) è il kung fu che determina il film e non viceversa. Ogni scena è concepita sempre in funzione del combattimento, vera e propria pietra angolare e punto di fuga su cui si sostiene e da cui si diparte tutta la narrazione. Narrazione che corre sempre sul filo della commedia, principalmente giocata sull’equivoco e il ribaltamento di ruolo tra generazioni differenti (la zia giovane e piacente, ma dai modi spicci e campagnoli, contrapposta al nipote vecchio e tradizionalista e al giovanissimo bis-nipote scapestrato e americanofilo), anche se non mancano derive slapstick più surreali (la gag con l’ispettore simil Kojak e il suo assistente alla “Mini Me”). Nonostante l’apparente banalità della trama, il film è tutto giocato sul contrasto tra tradizione e modernità, nazionalismo e occidentalizzazione. È come se il kung fu movie degli anni ‘80, orfano di Bruce Lee, s’interrogasse su se stesso e sul proprio futuro, subendo di riflesso le forti trasformazioni che attraversavano in quel momento la società hongkonghese. 
Molte le scene da ricordare, prima fra tutte il frenetico ballo in maschera, in cui danza, arti marziali e scherma si passano la mano armonicamente e senza soluzione di continuità (una lezione di cui si ricorderà anche Jackie Chan). 
Curiosità: Gordon Liu appare in un piccolo cameo. Ironicamente non muove un dito e si limita a cantare, ballare e suonare la chitarra.

The New One-Armed Swordsman
 di Chang Cheh

con David Chiang, Ti Lung, Guk Fung, Wong Chung, Yuen Shun-yi, Li Ching

Hong Kong, 1971

Il mito dello spadaccino monco era una delle icone più emblematiche e redditizie per gli studi Shaw. Tant’è che quando Wang Yu, protagonista dei primi due capitoli, abbandona la casa per diverbi contrattuali a Chang Cheh è affidato il compito di ripartire da zero. The New One-Armed Swordsman è quindi una sorta di auto-remake del capostipite del 1967, che il regista realizza affidandosi ai corpi di David Chiang e Ti Lung, rispettivamente nel ruolo di protagonista e in quelle del fedele amico da vendicare. 
Che ci fa un wuxiapian in una rassegna dedicata al cinema di kung fu? Chiedetelo agli organizzatori. Alla fine poco importa, il film è comunque interessante per farsi un’idea della poetica nera di Chang Cheh (e anche, tramite gli altri titoli proposti, della sua evoluzione nel corso degli anni in parallelo con diversi generi): messa in scena cruda con frequenti tocchi gore (il fiotto di sangue derivato dai chambara eiga giapponesi), scontri “uno contro cento” portati fino alla massima esasperazione, esaltazione dell’amicizia virile con spiccati sottotesti omoerotici. 
I personaggi di Cheh rappresentano il declino dell’eroe tradizionale del kung fu movie e del wuxia classico: mutilati nel corpo e/o nello spirito, sono in molti casi destinati a una deriva nichilista e suicida. Ma qui lo spadaccino monco è ancora portatore di un disegno morale: paga a caro prezzo la tracotanza giovanile e si redime punendo il falso maestro privo di etica. 
Per il resto, ricchi scenari che oscillano tra gli esterni reali e quelli ricostruiti in studio e regia funzionale alla plasticità degli scontri, che non rinuncia di quando in quando al guizzo espressivo.

The Five Venoms di Chang Cheh

con Sun Chien, Lo Meng, Chiang Sheng, Lu Feng, Philip Kwok, Wai Pak

Hong Kong, 1978

Chang Cheh ne sa sempre una più del diavolo e, sul finire degli anni Settanta, ti inventa questo sottofilone, che innesta il kung fu in un contesto fantastico e fumettistico (soprattutto con riferimento alle serie di supereroi giapponesi). 
I Cinque Veleni sono un gruppo di combattenti allievi della stessa scuola e specializzati in uno stile che richiama un animale (più o meno) venefico: serpente, scorpione, lucertola, centopiedi, rospo. Ciascuno indossa un costume speciale che sembra un incrocio tra la tuta di un supereroe, la divisa con tanto di maschera da luchador messicano e il look zebrato dei Kiss. La storia segue le mosse dell’ultimo discepolo della “Casa dei veleni”, che ha il compito di rintracciarli e verificare che seguano la retta via.
The Five Venoms fu un successo commerciale strepitoso che lanciò il sestetto di attori (tutti scoperti da Cheh) e diede vita a una serie interminabile di seguiti e di cloni. Un film seminale, come si dice in questi casi, la cui importanza storica per il genere forse trascende i suoi effettivi meriti. Molti action del futuro, nonché prodotti d’animazione, manga e videogiochi vengono tutti da qui. 
Cheh rivolta come un guanto (o come una maschera…) il gongfupian: basta confrontare questo film con The King Boxer per capire che siamo di fronte a qualcosa di completamente diverso. Messo al bando qualunque riferimento alla cultura, alla storia e alla morale tradizionale, ci troviamo in un universo atemporale e favolistico, in cui gli eroi sono spesso traditori avidi o spietati assassini. Kitch come se piovesse; colori sgargianti, effetti speciali naif e fiumi di sangue. 
Curiosità: In Italia uscì, tanto per cambiare, con un titolo creativo (Le Furie Umane del Kung Fu) e, a quanto pare, con un doppiaggio del tutto fuori di melone.

 The Magic Blade 
di Chor Yuen

con Ti Lung, Lo Lieh, Guk Fung, Cheng Miu, Cheng Lee, Lily Li, Tim Lei

Hong Kong, 1976

Chor Yuen si merita forse il titolo di regista d’arti marziali più folle di Hong Kong. Di certo questo titolo è una valida prova a favore dello scettro. 
Fu Hung-hsueh è il prototipo dell’eroe postmoderno: poncho da Straniero senza nome di eastwoodiana memoria, lama rotante impugnata come un mitra. Sulla sua strada incontra di tutto: vecchie streghe cannibali, cavalieri che giocano con scacchi umani, uno squadrone di guerrieri dalle buffe coreografie. Wuxia, gongfu, chanbara, spaghetti western: tutto confluisce in questo calderone avant-pop dagli sfondi dipinti e dalle scenografie di cartone. Illogico sforzarsi di trovare un messaggio o anche solo di rintracciare un filo conduttore nella lisergica trama. Piuttosto le scene si susseguono per giustapposizione quasi onirica. Che tutto sia il sogno febbricitante di un cavaliere drogato, o magari di un appassionato che ha fatto indigestione di Shaw Productions? 
O ci si fa catturare dal delirio situazionista (splendidi gli sconclusionati dialoghi simil-lirici) – l’apoteosi quando nel bel mezzo del combattimento finale compare un uomo nascosto dietro un paravento ambulante – oppure meglio non intraprendere nemmeno la visione.