Nippon Connection 2021


Nippon Connection: un report della ventunesima edizione

(1 giugno - 6 giugno 2021)

La ventunesima edizione del Nippon Connection, festival di cinema giapponese che si tiene ogni anno a Francoforte, si è svolta online (1-6 giugno) a causa della pandemia di COVID-19, così come nel 2020. Questo, tuttavia, non ha impedito agli organizzatori di confezionare un’ottima rassegna, che poggia le sue fondamenta su un ricco catalogo composto da nomi noti e meno noti al pubblico, ma offre anche una serie di conferenze, interviste, letture e workshop che accrescono la qualità e la varietà della proposta.

Questo sarà un resoconto personale, con qualche riga dedicata a ogni film visto, al netto di quelli che sono riuscito a vedere nei giorni disponibili e dei gusti soggettivi che mi hanno spinto a preferire un film piuttosto che un altro. 

 

 

 

Sono partito con Red Post on Escher Street, scritto e diretto da Sono Sion, in cui si trovano atmosfere più pacate e solari rispetto alla media dei suoi film, una fotografia dai colori più accesi (merito di Suzuki Masaya) e un tono generale da commedia. Non mancano comunque i suoi stilemi ben riconoscibili, dall’utilizzo della musica classica all’uso prolungato della macchina a mano, passando per diversi piani sequenza, dense riflessioni metacinematografiche, palese autoreferenzialità, sequenze al limite del grottesco, recitazione over ma spesso molto incisiva. Forse uno degli aspetti che più mi ha colpito è la costruzione di una poetica dei perdenti, soprattutto giovani, che spinti dal loro carico emotivo potrebbero rovesciare il mondo. Non il miglior Sono, ma comunque meglio della maggior parte di pellicole che esce annualmente.

A Girl Missing, scritto e diretto da Fukada Koji, è un’opera quadrata e solida, dai ritmi misurati e dai tempi dilatati, utili per costruire il dramma di una donna e della sua vita che gradualmente viene distrutta dalla cultura della vergogna e dall’insensibilità dei media. La regia è fatta di pochi piani e pochi angoli, tenendosi sempre a una certa distanza dai personaggi, svelando la rete di bugie che serpeggia tra loro ed evitando così allo spettatore, in modo efficace, di parteggiare per qualcuno. È un buon film d’autore, con una fotografia dai colori desaturati molto curata, diverse inquadrature evocative e un gran finale, ma se proprio non trovaste in queste poche righe motivazioni convincenti per vederlo dovrebbero bastarvi le magnifiche interpretazioni delle attrici Tsutsui Mariko e Ichikawa Mikako, davvero molto brave nel veicolare in maniera sottile espressioni, sguardi, gesti e movimenti. 

Il successivo, tra i più anarchici, è stato The Day Of Destruction diretto e scritto da Toyoda Toshiaki, opera potente visivamente e tematicamente, dalla trama che poggia più su suggestioni che su una narrazione lineare. Tuttavia è proprio questo il punto di forza dell’opera: la sua intensità sgorga dalle immagini, che esplicitano tutti i messaggi che il regista vuole mandare, dalle Olimpiadi di Tokyo alla pandemia, dalla forza mistica dello Shugendō alla necessità del cambiamento. Tutto è radicale e anticonvenzionale, indipendente fino al midollo: la struttura filmica (prologo in bianco e nero, parte centrale e finale a colori, finalissimo quasi in monocromia), il montaggio (pressanti dissolvenze a nero), ma soprattutto un comparto sonoro devastante, composto da una colonna sonora fatta di punk giapponese dai testi politicamente pregni,  musica tradizionale rielaborata e suoni laceranti pronti a squarciare la realtà. 

Kamata Prelude, film antologico di Nakagawa Ryutaro, Akiyama Mayu, Yasukawa Yuka e Watanabe Hirobumi, si concentra sulla vita di una ragazza che vuole diventare un’attrice e sul suo ingresso nel mondo cinematografico. I segmenti che mi hanno convinto di più sono stati quelli di Akiyama e Watanabe, rispettivamente il secondo e il quarto, per la messa in scena, per cosa hanno voluto raccontare e per la ricerca ed esplorazione di un’idea di cinema personale. In particolare, quello di Akiyama è stimolante per il progressivo svelamento della verità sui personaggi coinvolti e per l’atmosfera rilassata, che permettono di sondare con leggerezza e profondità i rapporti tra uomo e donna e il ruolo sociale di queste ultime (tema, questo, che fa da filo conduttore per tutti i segmenti). Quello di Watanabe invece, girato con lo stile che abbiamo conosciuto bene al FEFF l’anno scorso, fatto di bianco e nero, piani sequenza e attori non professionisti, rimane rilassato ma vivace e divertente, ricco di caustica comicità e, ancora una volta, metacinematografico. Il finale, inoltre, sorprendentemente a colori, regala uno sguardo al futuro che si fonda sul confronto con i problemi del presente.

Under The Open Sky, scritto e diretto da Nishikawa Miwa, presenta una trama classica (il percorso di redenzione di un ex-yakuza che prima deve e poi vuole reintegrarsi nella società) che offre qualche buona sequenza, ma soprattutto un’altra ennesima grande prova attoriale di Yakusho Koji, portentoso e catalizzatore, che regge il film praticamente da solo. Interessanti la riflessione sulla yakuza come business ormai agli sgoccioli, a causa sia delle misure statali che della morale civile, il montaggio calibrato per strappare la lacrima nei momenti giusti e il finale speranzoso ma amaro, mentre è meno convincente la fotografia di Kasamatsu Norimichi, forse un po’ troppo luminosa e patinata per il tipo di storia che viene raccontata.

Alquanto sperimentale Extraneous Matter – Complete Edition – scritto e diretto da Ugana Ken’ichi, girato in bianco e nero e in formato 1,37:1. Il film, della durata di un’ora, sorprende mescolando erotico, horror, fantastico e commedia, passando dal tentacle porn alla critica sociale nel giro di pochi momenti e arrivando a un’inaspettata atmosfera fiabesca sul finale. Trattare temi come la solitudine, l’incomunicabilità e la scomparsa del desiderio con il cinema di genere in maniera così audace funziona, soprattutto con una produzione a basso budget, in cui le creature simili a polpi che scatenano gli eventi conservano la fisicità degli effetti speciali meccanici di un tempo ed evocano un ritorno al “piacere della carne” come stendardo della sopravvivenza, non solo emotiva.

Una sicurezza, invece, Shiraishi Kazuya, che con il suo Sea of Revival, scritto da Kato Masao, riesce ancora una volta a raccontare la vita di persone imperfette e incomplete, distrutte da drammi e costrette a rimettere insieme i pezzi della propria vita appoggiandosi all’unico appiglio: la famiglia. Le famiglie di Shiraishi sono spesso anormali, non canoniche, e la loro continua distruzione e ricomposizione è uno dei temi cardini della sua filmografia. Shiraishi è uno dei pochi importanti autori sbocciati dopo l’anno 2000 nel cinema giapponese, assieme a pochi altri tra cui la sopracitata Nishikawa, che porta avanti una poetica e uno stile personale, qui entrambi cristallini, anche per quanto riguarda il lato tecnico, fotografia e movimenti di macchina in primis (molto bello il piano sequenza al matsuri, così come l’inclinazione della mdp quando il protagonista si fa sopraffare dalla mania del gioco d’azzardo).

Bolt, scritto e diretto da Hayashi Kaizo, è un film in tre episodi incentrati sul disastro di Fukushima, rispettivamente sulla contaminazione delle acque appena successiva alle esplosioni, su una ditta tokusō (pulizia speciale di case al cui interno sono avvenuti decessi) nell’area contaminata, e sulla vita dopo la catastrofe. Tutti gli episodi hanno per protagonista Nagase Masatoshi, che interpreta un personaggio che attraversa le tre fasi cercando di tirare avanti nonostante la sua vita, fin dall’inizio, sia segnata. La messa in scena rimescola un po’ i tropi visivi che hanno contraddistinto le narrazioni sul nucleare più recenti, dalla serie HBO Chernobyl a The Land of Hope di Sono, discostandosene poco, tuttavia funziona e non gira a vuoto, sia per le tematiche ancora attuali ma soprattutto per dei tocchi da realismo magico per visualizzare radiazioni e mutazioni provocate dalle stesse. 

It’s A Summer Film, esordio al lungometraggio per Matsumoto Soshi, è il classico coming of age di tre ragazzine delle superiori che, per il festival culturale del liceo, decidono di girare un jidaigeki a causa della forte passione di una di loro, la regista, per questo genere. Come se non bastasse subentra poi una componente sci-fi che complica le cose, ma il nucleo rom-com del film, portato avanti fin dalle prime immagini, rimane pressoché intatto. La regia a tratti risulta un po’ troppo televisiva (si vede subito che il regista viene dagli spot pubblicitari), ma è difficile non affezionarsi alle protagoniste alle prese con la realizzazione del loro film e con un ragazzo misterioso. L’importanza del presente, a dispetto di un passato glorioso e di un futuro incerto, è la chiave di lettura per non essere troppo duri e apprezzare un’opera tutto sommato non eccelsa e impostata su percorsi già ampiamente rodati.

Zeze Takahisa, lontano dai suoi passati sperimentalismi con i pinku eiga, ha scritto e diretto nel 2019 The Promised Land, dramma basato su un romanzo del famoso scrittore Yoshida Shuichi. Questo film ha tutte le carte in regola: una regia quadrata, una fotografia più che accettabile, una scrittura dei personaggi interessante e delle tematiche sociali rilevanti. Infatti, tocca questioni universali come la paura del diverso e la chiusura mentale delle province, declinando però il tutto nel contesto giapponese, con l’immigrato (ma anche chi non si vuole piegare ai dettami dei vecchi capi) perennemente colpevole, e l’abbandono dei villaggi e delle tradizioni da parte dei giovani, soffocati da una pressione sociale asfissiante. Un film che quindi si muove tra l’autorialità e il commerciale mantenendo una precisa identità visiva e narrativa, confermando istante dopo istante le sue qualità.

Un salto tra i documentari con Ainu Neno An Ainu, film diretto da Laura Liverani e Sora Neo e prodotto da Launch Bee House (collettivo di cui fanno parte i registi), che si sviluppa da un interessante progetto fotografico della stessa Liverani. Ainu Neno An Ainu è un documentario fatto con tutti i crismi, ricco di immagini di persone e luoghi vissuti, capace non solo di mostrare in che condizioni versa la comunità Ainu nella contemporaneità, ma anche le discordanze che la attraversano, come lo sfruttamento del cosiddetto “turismo Ainu” o il senso di appartenenza che varia in base alle località e al vissuto personale di ogni individuo. Lo sguardo non può essere totalmente neutro, essendo questo anche un documento antropologico visuale, ma è quanto più possibile lontano da una visione orientalista. Su Asian Feast è presente una bella e approfondita intervista alla regista, che spiega il processo creativo che l’ha portata alla realizzazione del film.

Voices In The Wind, diretto da Suwa Nobuhiro e scritto da lui insieme a Inukai Kyoko, è una delle perle di questa edizione del Nippon Connection. Nel raccontare la storia di una ragazza adolescente che ha perso la famiglia durante il disastro del marzo 2011 e che vuole tornare al suo villaggio dopo che la zia con cui viveva si ammala, emerge la vita di persone emotivamente distrutte condannate a sopportare un dolore perennemente presente. Girato magnificamente con uno stile quasi documentaristico e con un uso magistrale del long take e del piano sequenza, Suwa, insieme al direttore della fotografia di Haibara Takahiro, costruisce inquadrature tecnicamente bellissime per luci e colori e concettualmente perfette per quanto viene mostrato (il trittico oppressione-desolazione-liberazione evocato solamente con le immagini è fantastico). Il risultato è un grande film, riuscitissimo, anche per l’interpretazione di Motola Serena, davvero in parte e brava nel passare in un attimo tra stati emotivi agli antipodi.

Un altro film dallo stile documentaristico, questa volta con una fotografia naturalistica e tanta macchina a mano, è Along The Sea di Fujimoto Akio, che si concentra su tre immigrate vietnamite che abbandonano il posto di lavoro dove vengono sfruttate per trasferirsi in un altro luogo e impiego. Nonostante all’inizio prevalga la dimensione lavorativa, andando avanti viene fuori soprattutto quella umana, focalizzandosi su una ragazza in particolare e su un evento che non può che aggiungere bellezza e caos nella sua vita. È un film fortemente politico e sociale, che racconta di persone invisibili che abitano i margini della società, ma che nonostante tutto esistono e non dovrebbero essere ignorate. Film abrasivo e spigoloso, ma necessario, che nella sua asciuttezza narrativa e visiva dice più di quanto vorrebbe e dovrebbe, soprattutto in quel finale risoluto che lascia ben poco adito alla speranza. 

Tutt’altra cosa è Wonderful Paradise, diretto Yamamoto Masashi e scritto dal regista insieme a Kaneko Suzuyuki, commedia dell’assurdo piena di genuina follia: bambini che si trasformano in bastoni, piante che crescono fino a diventare giganti, morti che tornano in vita e tante altre cose. Pur non essendo assolutamente un film che spicca per la regia o la messa in scena, riesce a strappare qualche risata per la naturale insensatezza di ciò che appare a schermo, seppur la vicenda parta da un semplicissimo spunto. Tuttavia, risulta quantomeno da segnalare il contrappunto creato dalla fotografia a tonalità pastello e la sequela di eventi che si susseguono, una stonatura sicuramente cercata e voluta, forse per evocare metaforicamente quello che può essere il nucleo tematico centrale: il disfacimento della famiglia e il suo successivo ricomponimento, nel bene e nel male (con citazione a Ozu sul finale). 

Beyond The Infinite Two Minutes, esordio al lungometraggio per Yamaguchi Junta su una sceneggiatura di Ueda Makoto (sceneggiatore di alcuni anime di Yuasa Masaaki, tra cui The Tatami Galaxy e The Night is Short, Walk On Girl), è un’opera fantascientifica tanto semplice quanto divertente sui loop temporali. La regia audace fatta in sostanza di due piani sequenza, un breve e uno molto lungo, e una macchina da presa volante e dinamica, non è semplice tecnicismo o esibizionismo: è anzi utilizzata in funzione della storia e del ritmo della stessa e riesce a far immergere completamente lo spettatore nella vicenda. Le gag comiche si mescolano molto bene all’interno del calibratissimo script, che non lascia spazio agli errori che spesso sorgono quando vengono trattati i viaggi nel tempo. È una pellicola decisamente convincente e fresca, che non a caso ha ammaliato pubblico e giuria del Nippon, i quali gli hanno attribuito due meritati premi.

L’ultimo è stato his di Imaizumi Rikiya, vincitore del Nippon Cinema Award. In questo film la storia di una coppia omosessuale che deve crescere una bambina diventa il pretesto per esplorare il senso di comunità e l’ammissione delle proprie colpe, ma soprattutto l’accettazione della società, una medaglia che forgia la sua faccia più oscura nel rifiuto. Il film ha una regia classica e solida e una narrazione che bilancia la dolcezza delle immagini con il coinvolgimento dello spettatore, soprattutto nella sua seconda parte più procedurale, ma si perde un po’ nella fotografia degli interni, a volte davvero sballata. Le interpretazioni di entrambi i protagonisti sono buone, quelle dei comprimari ancora meglio, e nel complesso risulta un film importante per il momento storico in cui ci troviamo e per le istanze delle comunità LGBTQ+.

In conclusione, tirando le fila di tutto quanto, si possono notare diverse tendenze del cinema giapponese contemporaneo. Uno dei temi più trattati è il concetto di famiglia, presente fin dagli esordi nella cinematografia nipponica, ma al contempo si verificano fenomeni più attuali come l’ipertrofia degli schermi, evento sempre più attuale nella vita quotidiana, o i continui rimandi postmoderni al e del metacinema, manifestazioni o metafore valide per raccontare una moltitudine di storie sempre diverse. La qualità dei film presenti al festival, per quello che ho potuto vedere, si può considerare sicuramente medio-alta e il festival stesso apre una finestra su una delle cinematografie più importanti del mondo con uno sguardo pienamente contestualizzato all’oggi.