Laura Liverani


Regista e fotografa

In occasione della prima mondiale al festival Nippon Connection di Francoforte sul Meno, intervistiamo Laura Liverani, co-regista insieme a Neo Sora di AINU NENO AN AINU. Oltre ad essere un’amica di vecchissima data della redazione di Asian Feast, Laura è anche una fotografa, documentarista e docente universitaria, che vive tra l’Italia e il Giappone. Il film parla degli ainu, la popolazione autoctona dell’Hokkaido, l’isola più settentrionale del Giappone. A partire dalla metà del XIX secolo, gli ainu sono stati progressivamente privati della loro lingua, cultura ed usanze, per subire un processo di “giapponesizzazione”.

 

 

 

 

 

 

 

Asian Feast: Laura, come nasce il tuo interesse per gli ainu?

Laura Liverani: Durante uno dei miei primi viaggi in Giappone, credo fosse il 2009, in una rivista che si chiama Metropolis leggevo un articolo sugli Ainu Rebels, un gruppo rap. Si parlava della loro musica di denuncia e della condizione degli ainu contemporanei. Lì ho cominciato a pensare che sarebbe stato interessante fare un servizio fotografico sugli ainu al giorno d’oggi. Era esattamente un anno dopo il primo riconoscimento concesso dal governo giapponese agli ainu, che finalmente si vedevano attribuire lo status di popolazione indigena. Ho cominciato a prendere contatti con la comunità ainu di Tokyo, a scattare le prime foto, finché nel 2012 ho conosciuto Haruzo Urakawa, un ekashi o un anziano ainu, e sono andata a fargli un ritratto fotografico nella sua casa tra le montagne fuori Tokyo, a Chiba. Quello è stato l’inizio del mio progetto fotografico dedicato agli ainu. Dopo un paio d’anni, durante i quali ero stata in Hokkaido e avevo continuato a scattare foto, mi sembrava ancora che mancasse una dimensione più profonda del racconto. Era bello fare i ritratti, ma mi sarebbe piaciuto fare un documentario. Il problema era la mia mancanza di esperienza in quel settore. Nel 2013 ho conosciuto un’ islandese, Valý Þórsteinsdóttir, che studiava cultura giapponese a Tokyo. Le propongo di fare un documentario insieme, ma anche lei non aveva alcuna esperienza. Mi ha detto però di conoscere un giapponese, che studiava cinema a New York e che era appassionato di cultura ainu. Volevamo fare questo progetto come collettivo, la mia idea era quella di una punk band del film making. 

AF: Perché avete scelto di ambientare il film a Nibutani?

LL: Nel 2014 Valý ed io volevamo andare a fare un primo giro di ricognizione in Hokkaido, ma non sapevamo ancora esattamente dove. Quindi ho cominciato a fare ricerche, leggendo articoli, e mi  sono imbattuta in Nibutani: un paese di 400 abitanti, un po’ isolato, ma tutto sommato non troppo distante da Sapporo. Due o tre ore di macchina. Collegato malissimo, come tutto l’Hokkaido, ma abbastanza accessibile. A convincermi è stata la scoperta che circa il 70% della popolazione di Nibutani è di origine ainu. Inoltre, è proprio lì che, negli anni 30 del XX secolo, Fosco Maraini era andato a studiare la cultura ainu, con una borsa di studio dell’università di Firenze. A quel punto ho detto This is the place!

AF: Avete contattato le autorità locali?

LL: Insieme a Valý, che in quel periodo era incinta di qualche mese, siamo arrivate a Sapporo e, grazie ad un’amica di famiglia di Neo, che insegna in un’università in Hokkaido e che ha una casa a Nibutani per le sue ricerche, riusciamo ad arrivarci. C’era solo una pensione, gestita da una signora anziana ainu un po’ scorbutica. Durante quella settimana, conosciamo Maki, una signora che lavora in un museo locale, la cui famiglia  era molto interessante, che è poi diventata la famiglia protagonista del film. Il paese è diviso in due da una superstrada. Tutto molto rurale, pochissima gente. Da un lato c’è la natura, fiumi, monti, orsi… dall’altro ci sono soprattutto case. La prima impressione era di essere arrivate a Twin Peaks. Al centro del paese c’è il museo e la stazione di benzina. E poi c’è il ristorante Drive In Yukara, l’unico locale aperto al pubblico, accanto al quale c’è una rider house. Le rider house sono dei posti ormai in via di estinzione, ma che erano molto popolari tra gli anni 70 e 80, dove i motociclisti si fermano per mangiare un piatto di ramen e poi possono passare la notte, pagando una cifra molto ragionevole, dormendo su un grande tatami. Ho scattato delle foto e, insieme a Valý, abbiamo fatto delle interviste. È stato così che abbiamo conosciuto Maya, la voce narrante del film,  che all’epoca aveva 15 anni. Già allora, nonostante fosse giovanissima, Maya era molto attiva nella sua comunità. Abbiamo deciso che lei avrebbe avuto un ruolo chiave nel film.

AF: Kenji, il padre di Maya, è molto attivo nell’insegnamento della lingua ainu. È abbastanza sorprendente scoprire, nel corso del film, che non sia un ainu di nascita.

LL: Una cosa di cui ci siamo rese conto quasi subito è che nella comunità ainu c’è molta inclusione. È un po’ la trasformazione di una pratica sociale tradizionale che si chiama utari, che significa adozione o elezione. Quindi qualsiasi persona viene inclusa, “adottata”. Kenji era un motociclista che passava di là e che ha deciso di fermarsi. E adesso è uno dei massimi esperti di lingua ainu e la insegna agli ainu stessi. È arrivato con la sua moto e si è fermato nella rider house, che era gestita dalla nonna di Maya, 20 anni prima. Ha conosciuto Maki, la mamma di Maya,  e non se n’è più andato.

AF: Ci sono altri “non ainu” a Nibutani?

LL: Circa l’80% della popolazione di Nibutani è ainu per discendenza.  Il resto è composto da giapponesi venuti da fuori , perfettamente integrati nella comunità ainu. Come per esempio i Takano, una coppia che si vede nel film,  hippie arrivati lì negli anni 60, che hanno deciso di rimanere. Sono stati tra ultimi a partecipare alla cerimonia dell’orso. Oggi hanno una bottega di artigianato ainu. La cosa è abbastanza inusuale, perché più comunemente ci sono coppie in cui c’è un ainu e un non ainu, mentre invece in questo caso nessuno dei due è ainu per legami di sangue, ma sono stati comunque accettati nella comunità e si sono adeguati alle usanze locali.

AF: Quanto sono diverse le usanze ainu da quelle giapponesi?

LL: Le usanze ainu condizionano anche la vita quotidiana. Per esempio, la raccolta di piante di montagna che poi vengono usate per i più svariati usi: cucina, pratiche sociali e religiose. Ad esempio quando viene costruita una casa, quando si piantano alberi per riforestare la zona come si vede nel film, o in altre situazioni, spesso si fa una cerimonia  di inaugurazione ainu.

AF: Quindi si tratta di una cultura molto spirituale?

LL: Un altro motivo per cui ho deciso di andare a Nibutani era la presenza di una sciamana e attivista di cui mi avevano parlato qualche anno prima: Ashirirera. Il suo nome in lingua ainu significa “nuovo vento”. Lei si è data un nome ainu e ha fondato una comune in cui accetta i tipi di persone più svariate: hippie, persone con disabilità fisiche o mentali, gente con problemi economici che ha bisogno di un posto dove stare, o semplicemente persone che vogliono conoscere la cultura ainu. Lei accetta chiunque e, solo se la persona accettata ne fa richiesta, allora Ashirirera le insegna i costumi e la storia degli ainu. Ma non si tratta di una costrizione. Se la persona non ha interesse a conoscere la cultura ainu, è comunque la benvenuta. Nel corso degli anni,  Ashirirera ha adottato 50 bambini, tra cui c’è Hibiki, un personaggio del film. Oppure c’è Magi,  una ragazza transgender che  è arrivata agli ainu partendo dalla sua passione per la fantascienza e i manga. Della sua storia trovo interessante questa sua transizione da uomo a donna, ma anche da non ainu ad ainu. Inoltre Magi è un personaggio importante perché fa capire quanto Ashirirera sia sempre stata aperta e che non si fa problemi di genere. Voglio dire, se tu sei un uomo e vuoi imparare una pratica femminile come il ricamo ainu, Ashirirera te lo insegna lo stesso. È anche vero Ashirirera non è vista bene da tutta la comunità, sia perché attira personaggi inconsueti, sia perché una volta l’anno organizzava nelle montagne un festival ainu che si trasformava quasi in un rave, con gente che arrivava da tutto il Giappone a campeggiare nei dintorni di Nibutani.

AF: Una volta completata la fase preparatoria siete tornati a girare. Com’è andata?

All’inizio saremmo dovuti essere in tre, ma Valý doveva accudire la sua bimba, quindi è rimasta a Tokyo. Quindi, nel 2015, Neo e io siamo tornati a Nibutani e abbiamo vissuto lì per due mesi, a strettissimo contatto con la comunità. Eravamo molto isolati. L’unico caffè-ristorante (il drive in Yukara) chiudeva alle 5 del pomeriggio, non c’erano negozi e, facendo una passeggiata da soli, un po’ fuori dal paese, si rischiava di incontrare gli orsi. Il primo konbini stava a 10 km di distanza. La vita sociale consisteva nell’andare nel laboratorio della signora Kaizawa, nonna di Maya, dove venivano preparati questi tessuti tradizionali ricavati dalle cortecce trovate in montagna. La sera tutti portavano qualcosa da mangiare e si passava la serata insieme.

AF: Prima accennavi al fatto che non è stato sempre facile lavorare con una persona che conoscevi appena.

LL: Neo ed io ci siamo trovati a fare questa esperienza della punk band in due e non in tre. Io spingevo verso certi temi, lui verso altri. Le discussioni erano frequenti, come è naturale che sia. Io venivo dalla fotografia, lui aveva studiato cinema. Per me non era sempre facile andare nella direzione che avrei voluto. So che senza di lui questo film non sarebbe esistito. Ma senza di me sarebbe stato un film completamente diverso.

AF: Una volta finite le riprese come avete lavorato alla post-produzione?

LL: I primi tempi abbiamo cercato di fare editing insieme e a questo punto il contributo di Valý era importante, perché lei conosceva la situazione, ma non era stata con noi a Nibutani. Nel corso degli anni ci siamo incontrati diverse volte in Islanda, a Londra, a Tokyo. E poi sembrava che il progetto fosse morto lì. La svolta c’è stata quando Neo ha conosciuto un montatore professionista, Takuya Kawakami, che si è appassionato al progetto. Questa sua passione ci ha permesso di assumerlo spendendo una cifra ragionevole. Il che è stato un bene, visto che è tutto autoprodotto. Abbiamo passato un mese a Tokyo, in cui Neo ed io discutevamo, a volte animatamente, cosa tenere e cosa tagliare, mentre Takuya che metteva progressivamente insieme il film. Una mattina ci vediamo, Takuya era rimasto in piedi fino alle 4 del mattino per finire il montaggio e quello che ci ha mostrato, ci ha quasi commossi, perché finalmente avevamo un film. La mia idea iniziale di punk band del film making, che era molto romantica, si è dimostrata essere molto più complicata all’atto pratico. Destabilizzare le regole e le gerarchie dell’industria cinematografica, non avere ruoli prestabiliti, non e’ stato sempre possibile. Ma l’esperienza ne e’ sicuramente valsa la pena.

AF: Ci sono momenti con inquadrature con un’impostazione molto fotografica ed altri con sequenze più filmiche. Essersi rivolti ad un montatore che non faceva parte della “punk band”, ha aiutato ad avere una sintesi della tua sensibilità, più fotografica, e di quella di Neo, più cinematografica?

LL: Durante le riprese avevo continuato a lavorare al mio progetto di ritratti fotografici degli ainu, e l’idea di includerne qualcuno nel film era una cosa che avevamo stabilito dall’inizio insieme a Valý. Il contributo di Neo ha fatto sì che l’integrazione di queste sequenze fosse più naturale. Sono come delle pause nella narrazione, per introdurre dei personaggi. E ce ne sono davvero tanti di personaggi! La nostra idea era di raccontare la vita di un intero paese, quasi un album di famiglia in forma di film.

AF: I testi della voce narrante sono scritti da voi e Maya ha contribuito alla stesura?

LL: Da subito, abbiamo deciso che Maya sarebbe stata la voce narrante. Il problema però è che quando siamo andati a girare, Maya studiava a Sapporo. Abbiamo registrato la voce narrante a Sapporo, quando avevamo già finito le riprese a Nibutani. Poi io, Neo e Takuya siamo tornati da Maya per alcune registrazioni supplementari quando avevamo già il rough cut del film. I testi sono totalmente suoi. Avevamo un canovaccio o meglio, le facevamo delle domande, era più che altro un’intervista. In alcuni casi è stato problematico, perché lei poteva parlare in maniera esaustiva della sua famiglia, ma c’erano anche personaggi con cui lei aveva poco a che fare. Abbiamo quindi pensato di affidare la narrazione ad altri. Per esempio Ashirirera viene raccontata da suo figlio Hibiki.

AF: Cosa significa il titolo?

LL: È il titolo sia del film, sia del mio progetto fotografico. È un verso tratto da un poema ainu. Ainu vuol dire “umano” e la traduzione letterale del titolo è “Umano come gli umani dovrebbero essere”. Io in genere lo traduco come “umano veramente umano”, ma non è una traduzione esatta.

AF: Quando nel film scrivono parole ainu, usano il romaji e non il katakana. Come mai?

LL: Come scrivere in ainu è stato per diverso tempo un argomento di discussione abbastanza caldo, poiché si tratta di una tradizione orale. Quando eravamo lì, Kenji ha scelto di usare il romaji, ma in genere si usano indifferentemente entrambi gli alfabeti. Non so come mai in quell’occasione abbia usato il romaji, ma credo che tutti provino a trovare il modo migliore per rendere per iscritto la pronuncia in diversi modi.

AF: Prima menzionavi la cerimonia dell’orso, di cui mostrate un filmato d’epoca. È bello che abbiate deciso di mostrarla, fermandovi prima della parte cruenta, che avrebbe fatto virare il film verso il mondo movie. Da dove arriva quel filmato?

LL: L’argomento della cerimonia dell’orso è molto controversa, da una parte è una pratica crudele, ma dall’altra fa parte della loro identità. Non volevamo insistere troppo sul lato crudele. Ad ogni modo, sono quasi tutti concordi nel lasciarsela alle spalle. Così come, per esempio, una signora di Nibutani mi disse di essere contenta che la pratica di tatuarsi le labbra sia andata in disuso. Il filmato che abbiamo usato è stato girato da Neil Gordon Munro, un antropologo scozzese, nonché maestro di Fosco Maraini. Ma avremmo voluto usare una parte di un altro documentario che mostrava l’ultima cerimonia dell’orso fatta a Nibutani, in cui si vedevano anche personaggi che compaiono nel nostro film: i Takano, Maki, che era una bambina. Chi detiene i diritti del filmato sostiene che estrapolare la sequenza dal contesto poteva portare ad interpretazioni errate. Quindi abbiamo rispettato questa sua scelta e siamo riusciti ad usare invece la sequenza di Munro.

AF: Sembrano passati secoli, ma all’inizio degli anni 2000 in Giappone c’erano ancora forti pregiudizi nei confronti degli ainu, che venivano considerati come dei mezzi selvaggi, sporchi e cattivi. Tu in questi anni hai passato molto tempo in Giappone, pensi che l’opinione dei giapponesi nei confronti degli ainu sia cambiata?

LL: In generale c’è più interesse e visibilità, ma la maggioranza dei giapponesi ancora non conosce gli ainu. Anche chi vive in Hokkaido, li conosce solo per sentito dire. Quello che sicuramente è cambiato, è l’atteggiamento degli ainu nei confronti di loro stessi. In passato, gli ainu nascondevano le proprie origini e fingevano di essere giapponesi, perché altrimenti sarebbero stati discriminati. Molti hanno ammesso di essere ainu solo dopo i 40 anni e hanno voluto imparare cosa voglia dire essere ainu. Mentre i giovani, come Maya, che adesso ha 22 anni, sono sempre stati orgogliosi di essere ainu e non hanno mai subito alcuna discriminazione.

AF: Il nome del vostro collettivo, Lunch Bee House, da dove arriva?

LL: Si riferisce al ristorante Lunch House Bee di Nibutani. Un posto che raramente apriva al pubblico. Soprattutto è un omaggio alla signora Kaizawa, la nonna di Maya, che tutti in paese chiamano okasan, “mamma” e dalla quale ci siamo sentiti adottati.