A Chinese Fairy Tale

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chinese-fairy-taleLa magia di alcuni film è stata ed è così incisiva da rendere spesso impossibile la realizzazione di un dignitoso remake o di un’opera tratta dallo stesso racconto letterario. In questo caso inoltre il titolo in questione è visibilmente vincolato al predecessore, fin da un brano della colonna sonora del pioniere che inaugura il remake dopo un’inedita introduzione mediamente riuscita. Se Storia di Fantasmi Cinesi si svincolava praticamente in toto dal precedente adattamento di The Enchanting Shadow, in questo caso le variazioni sono microvariazioni e la radicalità maggiore è data in pasto, con coraggio frammisto a incoscienza, alle magie del digitale che notoriamente se mal gestite sono capaci di divorare ogni magia. Ed è qui la totale caporetto di questo A Chinese Fairy Tale, ovvero il restituire una noiosa variazione glaciale e priva di ogni emozione. A tratti nostalgia, quella si, dettata da musiche e attori storici (oltre alla dedica in coda alla memoria del prematuramente scomparso Leslie Cheung, protagonista di Storia di Fantasmi Cinesi) ma mai emozioni, effetto decisamente spiacevole per un titolo del genere.
D’altronde nel vecchio film non era (solo) il nuovo effetto speciale a fare grande l’opera ma la poesia evocata dalle piccole cose, dal senso più profondo di cinema, da una musica che si levava al momento giusto quando il protagonista avanzava verso il gazebo in riva al lago, da un bacio dato in una tinozza colma d’acqua, dal vento che muoveva i capelli del triste fantasma d’amore.
Così quello che era stato il nuovo capostipite del fantasy hongkonghese (e non solo) e che aveva aperto la strada a decine di scopiazzature, a due sequel, un film animato, a una nuova visione dell’effetto speciale in loco, in questa versione diviene solo un laccato blockbuster che si va a perdere tra le decine di prove di forza del nuovo ricco cinema cinese, opere sempre più pompose, competitive, stupende e accecanti in resa visiva ma poverissime in suggestione e poetica interna. Certo, va preso atto che un film del genere fosse stato prodotto ad Hollywood ora sarebbe distribuito probabilmente nelle sale di tutto il mondo, ma questo non nega la sua totale inefficacia nonostante la mano solida del regista Wilson Yip (Ip Man) che più volte tenta anche a livello di messa in scena la strada della nostalgia (un po’ come aveva fatto in White Dragon) con le classiche inquadrature sghembe e qualche trovata old school. In coda anche le due serpentesse della nota leggenda (altro film di Tsui Hark, Green Snake) che poi sempre nel 2011 sarebbero divenute protagoniste di un nuovo, pessimo, film di Ching Siu-tung basato su di loro, The Sorcerer and the White Snake. Aspra delusione dell’anno.