A Family

Voto dell'autore: 4/5

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A FamilyModesto nelle intenzioni e nel budget Family è un film raccolto, ma si propone di toccare e far vibrare in profondità le corde dei sentimenti più intimi dello spettatore. E la cosa sorprendente è che raggiunge appieno lo scopo prefissato. È la vita all’interno della famiglia che interessa al regista Lee, esordiente “eccellente” come tanti suoi connazionali. Ed è un commovente rapporto tra padre e figlia – difficile, teso, ma sincero – a costituire il fulcro attorno al quale viene costruito l’intero impianto narrativo.

Il burbero, ma premuroso Ju-seok (il padre), il piccolo e vivace  Jeong-hwan (il figlio) e la ribelle Jeong-eun (la figlia, interpretata da una smagliante Soo Ae, popolare per alcune serie televisive di successo), appena uscita di prigione, sono tutt’altro che la classica famigliola benestante armoniosa, spensierata e senza problemi. A questi, in primo luogo la ristrettezza economica e il rapporto deteriorato tra padre e figlia, si aggiunge poi, in seguito al rilascio di Jeong-eun, la persecuzione mafiosa.

Il mondo della malavita organizzata è ritratto senza mezzi termini: spietato, violento, senza il minimo scrupolo a minacciare e intimidire. Una visione certamente più matura, responsabile e verosimile che non la consueta rappresentazione indulgente e burlesca tanto in voga nelle produzioni comiche nazionali (e non solo). Qui invece i cattivi non scherzano, non perdonano e quando picchiano fanno male sul serio. A loro si deve il lato più oscuro e brutale della pellicola, che in altre occasioni denota invece un’accogliente tranquillità. E la colonna sonora, così poco invadente, sa sottolineare i momenti di massima drammaticità, come sa anche defilarsi in favore di silenzi più nudi e reali, che fanno respirare la quiete e la freschezza di una narrazione che non stanca e di una recitazione che non tradisce simulazioni. Una cosa che accomuna curiosamente tutti i quattro attori scelti per i ruoli principali, oltre l’innegabile bravura, è la voce non ordinaria. Il timbro particolare che li contraddistingue singolarmente li colloca in una condizione di outsiders, li separa dalla gente comune e concorre ad instillare nello spettatore una certa simpatia (intesa come sofferenza condivisa) nei loro confronti. È decisivo ai fini della riuscita del film, inoltre, il modo in cui il regista abbia saputo confezionare finemente la progressione della trama, dosando in modo impeccabile le situazioni ad alto tasso di drammaticità e quelle più distese, i momenti di gioia e quelli di dolore, i cambi di registro e le rivelazioni. Durante quasi tutta la pellicola non si accusa alcun calo di ritmo, i colpi bassi si susseguono in continuazione e c’è sempre qualche retroscena, qualche segreto ancora in serbo, fino alla sequenza finale. L’ultima inquadratura poi è illuminante. Apparentemente è una semplicissima fotografia che ritrae i due fratelli felici, ma sembra messa lì per testimoniare la vita che continua, anche dopo le avversità e le tragedie. In un mondo corrotto e degenerato, in cui le relazioni – anche quelle più intime tra membri di una stessa famiglia – rischiano a volte di essere tremendamente complicate, c’è ancora spazio per la tenerezza di un sorriso.

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