A Frozen Flower

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A Frozen FlowerCondizione ineludibile del melodramma è l’impedimento amoroso. A Frozen Flower scarta subito: saranno i protagonisti stessi a crearsi ostacoli, quasi non credessero davvero nei propri sentimenti e cercassero di metterli alla prova. O annientarli.
Un re, una regina, il comandante delle guardie. Ad amarsi sono i due uomini. L’assenza di un erede e il futuro della dinastia aprono la strada a manovre di palazzo (abdicare in favore di un reggente più controllabile) e più letali congiure. Sarà il re stesso ad imporre quella che sembra l’unica possibile soluzione, che gli altri due lati del triangolo si uniscano per generare un figlio. Ma non si trattava di un triangolo… e le nuove geometrie sconvolgeranno gli equilibri.
Accusato da più parti di pochezza figurativa (decor e fotografia “piatta e televisiva”, decidete voi), una sceneggiatura non proprio equilibratissima che sembra soffrire di tagli imposti dall’eccessivo minutaggio, il film brilla per la regia di Yoo Ha, affascinante declinazione di motivi e suggestioni abilmente stratificate.

“Sei l’unico di cui mi possa fidare”
“Non c’è nessuno di cui mi possa fidare”
Fra le due battute del re si dipana il senso dei rapporti fra i protagonisti. Non la gelosia, la fedeltà, il tradimento (spunta un sacchetto profumato, quasi il fazzoletto di Otello) ma la maggior complessità di fiducia, lealtà e responsabilità.
Nessuna ansia di possesso, esclusività, esercizio del potere. Nessuna ambizione a regnare sul mondo, ansia di gloria o conquista. La vicenda amorosa e quella politica in un reciproco riflettersi: l’intrigo e la cospirazione come la parte più sporca del conflitto, la bugia e l’inganno peggio della lussuria.
Poi tutto crolla, l’amore abdica al dubbio, ogni gesto diviene interpretabile e chiunque è sospetto. La realtà (mai dichiarata) dei movimenti dell’animo è il filo di rasoio su cui viaggia in equilibrio la narrazione. Il capitano ama davvero la regina o è solo travolto da una passione che non comprende? La regina ama davvero il proprio rivale o si sta vendicando dell’uomo che ha odiato fin dal primo giorno provocandone la caduta (e così avrebbe senso l’ultimo incontro fatale, il gesto più stupido che il capitano potesse compiere)? Il secondo ufficiale è solo un’infida marchetta o ambisce davvero ad uno status che il destino gli lascia intravedere? L’ultimo “Non ti ho mai amato” è la meschina verità di un etero confuso o la crudele vendetta di chi ha visto il proprio amore trasformarsi in odio e sofferenza?
Regna sovrano il dubbio, l’incertezza, l’immobilità. Cinematograficamente espressa con inquadrature prive di movimento interno e solenni, gesti composti e misurati, voci trattenute e sommesse, nel segno di una tensione destinata a deflagare. Anche figurativamente, come nel caso dei tre approcci fra regina e capitano: fallito il primo, senza neppure spogliarsi, poi tentato, coperti dalla lenzuola, poi esploso, i corpi esposti allo sguardo.

Dicevamo, ad amarsi sono due uomini, due guerrieri, due maschi. Che si prendono cura l’uno dell’altro, imboccandosi il cibo, pettinandosi i capelli, suonando e dipingendo insieme. Ma che soprattutto non temono di dare voce ai sentimenti. Niente allusioni, perifrasi o sottintesi. La loro femminilità è affidata alle parole di una dimensione intima mai taciuta, anzi esibita: i due dividono il tempo e il letto (anche solo per dormire) senza sotterfugi mentre la clandestinità è il marchio infame del rapporto etero. Dall’altro lato c’è la violenza del gesto. Violenza che rinuncia a spettacolari coreografie per affidarsi ad un furore scomposto, lame e sangue, mazze chiodate e teste sfondate.
La crasi sarà nello scontro finale quando i due, fra un colpo di spada e l’altro, daranno per l’ultima volta voce al proprio amore. L’epilogo, ben lungi dal ridicolo di cui viene accusato, è la sintesi definitiva: due guerrieri che cavalcano liberi con l’arco teso come nell’immagine dipinta insieme, ultimo gesto condiviso, poi tutto precipiterà.