A Night in Nude

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A Night in NudeA scanso di equivoci, se A Night in Nude non è un capolavoro, certamente ci va molto vicino. Questo però poco importa. Se si dovesse adoperare troppo zelo  nell’analizzare  il cinema di Ishii Takashi qualcosa andrebbe irrimediabilmente perduto. Quella patina sudicia che è ai bordi delle sue inquadrature sarebbe tirata via dall’occhio troppo attento del critico cinematografico. E se lasciassimo lucidare questi diamanti grezzi avremmo qualcosa di diverso. Se si accorgessero che da queste parti nel 1993 si giocava con i neon per le scene d’amore prima di Wong Kar Wai e che le allucinazioni si mescolavano alla realtà prima di Pen-ek Ratanaruang, questo vorrebbe dire svuotare di significato la scoperta del suo cinema durante la visione. Sarebbe come rimuovere la primordiale brutalità che vive sottopelle alle sue storie e che strappa i suoi personaggi alla banalità delle loro vite quotidiane. Queste storie vanno viste e vissute con pura istintività dallo spettatore. Per questo è meglio tenerlo nascosto il suo cinema, come un vecchio libro dalle figure sporche nascosto in un baule in soffitta.

In questa storia c’è l’immenso Muraki, personaggio indossato da Takenaka Naoto, che come il protagonista di Città di Vetro di Paul Auster viene coinvolto da una telefonata in qualcosa più grande di lui. Come fosse il Philip Marlowe più sfigato che Raymond Chandler non abbia mai avuto coraggio di (de)scrivere, trova ad attenderlo un inatteso ed improbabile incarico per il quale si muove a tentoni tra gli indizi che colleziona malamente. Eppure non siamo negli Stati Uniti, né nella New York di Auster, né nella Los Angeles di Marlowe. Siamo a Tokyo. E allora è solo un caso, una risonanza che si ripete simile a diverse latitudini, ma che ogni volta restituisce un immaginario memorabile, questa volta tratteggiato da Ishii Takashi.

Come per Chandler la totale incomprensione dell’altra metà  sottende all’eterna e parziale irresolutezza del protagonista maschile, che in questo caso continua dopo anni a dormire per terra in un appartamento dove viveva con tre prostitute straniere. Parla teneramente di monumento alle donne quando si riferisce ai loro oggetti ammucchiati in casa di cui non riesce a disfarsi. Riesce a farsi incastrare in un omicidio da una sconosciuta (Yo Kimiko) fino a scivolare volontariamente nella complicità a causa di quel meccanismo di difesa prettamente maschile che scatta di fronte ad alcune fragili figure femminili. E’ un puro totale, che per amore rinuncia alla salvaguardia della propria integrità ritrovandosi però solo e lontano dal mondo, disperatamente proteso verso un’ideale di donna che chissà se esiste. E la vecchiaia può solo portarlo ancora più lontano nella sua disillusione, come verrà mostrato dallo stesso regista nel recente sequel A Night in Nude: Salvation.

Forse è solo proiezione mentale l’immagine che ha della donna, ma Muraki sceglie disperatamente di credere in Nami dopo aver scoperto gli abusi subiti dallo Yakuza interpretato da Nezu Jimpachu e dal suo effeminato sgherro Shiina Kippei. In fondo non esiste logica per chi sente di non aver nulla da perdere. E raramente i personaggi di Ishii hanno qualcosa a cui appigliarsi nelle loro esistenze. Magari non è nemmeno un caso che Takenaka, Nezu e Shiina si sarebbero ritrovati a vestire altri ruoli per lui in Gonin l’anno dopo. C’è un legame empatico che corre sotto pelle a tutti i personaggi della sua filmografia, che è a ben vedere frutto di un grande studio della psiche maschile, che certamente non può sfuggire ai grandi attori che scelgono di recitare nei suoi film. Si tratta probabilmente di qualcosa che rimane incollato addosso dopo aver interpretato certi ruoli.  Non sono allora un caso i temi ricorrenti come la violenza, il sesso, l’omosessualità, la misantropia. Non è pura exploitation, ma maledetta cifra autoriale che deve essere riconosciuta.

E’ proprio il difetto di comunicazione di un uomo verso l’esterno che fa spesso da principio generatore alle vicende delle pellicole di Ishii. E come per tutti i grandi autori ogni pezzo della cinematografia è un tassello di un’unica grande storia nel quale far ricorrere le proprie ossessioni. Una di queste è la pioggia che arriva sempre nei momenti topici, come dovesse placare la tensione, cristallizzare momenti, lasciando solo gli sguardi a solcare il flusso d’acqua dal cielo. Si tratta dell’intervento del Dio/Regista che lascia raggelate le marionette delle cui esistenze tira i fili. Senza rabbia, giusto con la malinconia dell’osservatore distante.