Achille e la Tartaruga

Voto dell'autore: 4/5

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Achilles and the TortoiseCitando uno dei paradossi di Zenone (quello di Achille e la Tartaruga, appunto) si chiude la trilogia dell’autodistruzione di Beat Takeshi, inaugurata da Takeshis’, proseguita con Glory to the Filmaker! e estinta con questo Achilles to Kame. Con l’imperscrutabilità di questo trittico Kitano ha anche perso consapevolmente il contatto con il pubblico, non solo quello popolare avido di esotismo (dopo Zatoichi nessuno in Italia ha più parlato di lui) ma anche quello specializzato (ne è un esempio l’ammorbante silenzio sotto cui è passato il film in quel della Mostra Internazionale di Arte Cinematografica di Venezia). Probabile cecità e ignoranza anche della critica, troppo impegnata ad accusare la presunta parzialità del direttore della Mostra e a soffermarsi sugli abiti del divetto hollywoodiano di turno per potere mettere in pratica una riflessione composta e approfondita su un’opera di tale spessore e complessità. Se Takeshis’ era un’artificiosa operetta ruffiana, un 8 e 1/2 sotto controllo, una bomba ad orologeria con il chiaro compito di abbattere lanciando citazioni, autocitazioni, furore e furia gassata in nome di un consapevole inno al caos tutto sommato fin troppo sotto controllo, Glory to the Filmaker! barcollava in temi più costruiti montando parzialmente di forma ma sfidando di nuovo con un ghigno sommesso la percezione dello spettatore. Nel bene o nel male Achilles to Kame è una summa strutturalmente più conciliante del percorso ma cinerea, nichilista, disperata, straziante, probabilmente il picco non superabile dell’attitudine melodrammatica dell’autore. Una sorta di The Lovers (Tsui Hark, 1994) al contrario, dove a fronte di un inizio quasi insopportabile in quanto a spietatezza morale, si devono attendere un novanta minuti buoni per potere respirare una gag atta a strappare un paio di amarissimi sorrisi. Il film è annegato in una fotografia funerea, inedita all’interno del cinema di Kitano dove solo i punti di interesse del protagonista, i suoi parti creativi e le opere d’arte sono pittate di colori vivaci che cozzano con l’oscuro ambiente circostante. Colori che andranno sommandosi parallelamente alla vicinanza tematica di Achille alla tartaruga, nel proseguo della vita e della produzione artistica, nell’avvicendarsi di morti violente. L’unico colore all’inizio è il rosso del sangue che contrasta con la desaturazione dell’intero contesto provinciale narrato. E poi la morte e un susseguirsi di atti di tentato suicidio come a rammentarci che di Kitano stiamo parlando, quello dei film precedenti e di quelli che verranno. I tasselli si ricompongono presagendo una futura carriera più conciliante. Ma come mai nei suoi titoli precedenti, nel narrare metaforicamente ansie, virtù, vizi di un artista (suoi anche tutti i quadri che si vedono nel film, dipinti appositamente nell’arco di pochi mesi), Kitano si prende delle libertà, le libertà che non si era (auto)concesso nei film precedenti, quelli incensati e premiati. Si permette di ridere e di ridere di ciò di cui non è permesso, di sfociare nel grottesco, di sorridere della morte che ti bacia da vicino (straziante la sequenza della morte della figlia), di mettere in pratica quello che aveva solo dichiarato nelle interviste ma che poi non aveva potuto ancora mettere realmente in scena. Un Kitano libero quindi dai vincoli di una produzione, finalmente slegato dal processo creativo, arte pura e unica. Una lucidissima riflessione sull’uomo e l’artista di rara intensità e di mastodontica portata filmica. Una prima parte coerente e rigorosa, segnata da un deragliamento narrativo simile in parte a quello del precedente film, ma di cui riesce a compierne in modo forse più conciliante il processo. Scelta ovvia perché almeno dichiaratamente di una chiusa di una parte (di film, di vita, di trilogia, di processo creativo) si tratta. Straordinaria prova di tutti gli attori e deliziose tutte le attrici, mostrando una consapevolezza di scelta di corpi e visi non indifferente. Per sapere la trama dettagliata e la divertentissima resa di alcune trovate di “pittura d’avanguardia” che tanto hanno fatto ridere i critici dell’epoca e di cui c’è invece ben poco da ridere si rimanda a tanta carta straccia scritta nel periodo del Festival di Venezia. Per ora non si può che ammettere di trovarsi di fronte ad una delle opere più riuscite e lucidamente strazianti di Kitano Takeshi.