Anatomia Extinction

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Anatomia ExtinctionNel 1995 c’era un giovane ventottenne con ambizioni da regista. Per il Giappone erano anni in cui si respirava un’aria decisamente elettrica venendo dagli ’80 di Ishii Sogo, passando per Tsukamoto Shinya, senza tralasciare un Fukui Shozin. Il cyberpunk era nell’aria, il cinema della carne così brillantemente inaugurato e dissezionato dal genio di David Cronenberg, a fine anni ’70 – inizio anni ‘80, veniva nella maniera più naturale trasfigurato dai registi giapponesi in cinema del metallo fuso alla carne. Mentre nel ’91 il maestro canadese tirava fuori Il Pasto Nudo, summa teorica del suo cinema, traendo ispirazione dall’allucinatorio capolavoro di William Burroughs, nella terra del Sol Levante venivano fuori 964 Pinocchio e Tetsuo II: The Body Hammer.
E tutto questo non poteva essere innocuo per il su citato giovane regista che rispondeva al nome di Nishimura Yoshihiro. Scelse infatti questi scomodi referenti per tirar fuori la sua cifra stilistica che, bisogna ammetterlo, era già ben definita in questo primo medio di poco inferiore all’ora di metraggio. Certo nulla di paragonabile allo stile dei mostri sacri citati in precedenza, ma i dovuti debiti sono ben distinguibili in questa vicenda che parla di corpi modificati e ingegnerizzati, di follia e misantropia, di stress e asfissia da società moderna. A questo poi ci si aggiunga la sua passione per le luci ben definite e fluo che illuminano i personaggi con gran predilezione per il rosso e blu alla Suspiria del nostrano Argento.
Insomma non si può negare al simpatico regista che avesse le idee ben chiare legate ad una sua deliberata volontà di sperimentare continuamente. Questo a partire dai teneri effetti in computer grafica ad inizio film, che sono una versione un po’ poverella di quelli visti in un Johnny Mnemonic o Il Tagliaerbe soffermandosi però su genitali maschili e femminili stilizzati. Oltre tutto la storia di questo Anatomia Extinction funge da embrione per quello che sarebbe stato tredici anni dopo il film che lo avrebbe consacrato alla ribalta internazionale: Tokyo Gore Police. Anche qui infatti c’è il sottotesto politico sulla società opprimente e sulla polizia violenta, anche qui la rivolta a ciò è rappresentata dalla modifica del corpo e soprattutto in entrambi i film vi è lo stesso personaggio dell’ingegnere che utilizza delle chiavi per scatenare l’inferno della carne.

Ovviamente questo medio non è e assolutamente non aspira ad essere un capolavoro, ma è decisamente un prezioso documento che rivela molto sul Nishimura regista. Per quanto le sue idee possano non piacere ai detrattori, bisogna dire che sono ben definite e probabilmente meno studiate di quanto si pensasse in origine. C’è della vera ricerca, a dispetto del risultato a volte un po’ stentoreo a livello tecnico, e non solo la volontà di scioccare per fare cassa al botteghino. Che si riconosca allora l’onestà di questo cinema.