Beyond Our Ken

Voto dell'autore: 4/5

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Beyond Our KenUn elemento salta subito all'occhio osservando il film, ossia il duplice omaggio all'Italia contenuto in esso. Durante i titoli di coda scorre un ringraziamento al Far East Film, il festival udinese in cui il regista, venuto anche come ospite, aveva presentato i suoi due lungometraggi precedenti. Secondo, la colonna sonora, che contiene -incredibilmente- una cover dei CCCP ad opera di Gianna Nannini (Amandoti) ripetuta per ben due volte, nel corso del film e durante i titoli di coda.
Superata la sorpresa per questi due elementi, rimane il film, decisamente interessante, che riserva altre numerose sorprese. Dopo due commedie grottesche, You Shoot, I Shoot e Men Suddenly in Black nulla sembra essere rimasto dello stile precedente del regista sia a livello tecnico che emotivo. I due precedenti lungometraggi erano parzialmente simili, dotati di una regia abbastanza classica e piena di quei caratteri cool epici propri del cinema di Hong Kong. Stessa cosa per la sceneggiatura, ben costruita a blocchi composti, precisa e permeata come elemento fondamentale dall'elemento ironico contrapposto a quello grottesco. Una lieve sterzata verso l'agrodolce emergeva sul finale di Men Suddenly in Black e forse questo film parte proprio da lì, da quel finale amaro, dallo sguardo rivelatore della moglie di Eric Tsang.
Beyond Our Ken, sembra un'opera di un altro regista tanto è matura e spietata, e costruita con uno stile del tutto diverso dai due film precedenti. La regia quindi è un deciso passo verso un passato cinematografico (di nuovo per l'ennesima volta il cinena di Hong Kong cerca la propria sopravvivenza guardando indietro), quello del Wong Kar-wai delle origini. Ed ecco che una regia pulita e perfettamente raccordata lascia spazio alla macchina a spalla e ad ellissi nei raccordi, ad una macchina perennemente in movimento con una ben consapevole attitudine nel raccontare gli eventi ed i luoghi con un piglio quasi neorealista. E proprio come lo erano quelli di Wong Kar-wai, e checchè se ne voglia dire non lo sono più i suoi nuovi, questo film è uno dei più abili degli ultimi anni nel rappresentare e mostrare una città, Hong Kong, nella sua facciata più realistica e vera (non verosimile, vera) con un'abilità rara e quasi inedita, proprio come magari lo era in Hong Kong Express. E questo film potrebbe quasi essere il terzo capitolo del dittico, una terza costola di Hong Kong Express che si va ad affiancare a Fallen Angels, non fosse per il fatto che il tempo è passato e questo lungometraggio è ormai terribilmente spietato e disperato ma non per questo esente da una sottile venatura di redenzione. Ridotto ai minimi termini una perfetta foto panoramica sociale di lancinante iperrealismo.
Qualsiasi commento sulla narrazione sarebbe irrispettoso nei confronti di uno spettatore e quindi basti rivelare che il fulcro dell'azione è rappresentato da un triangolo amoroso. Una ragazza (Gillian Chung) viene lasciata dal suo uomo, interpretato da Daniel Wu (che stavolta funziona). Nel momento in cui lui pubblica in internet delle foto osè scattate insieme a lei, la ragazza contatterà l'attuale donna del suo ex per aiutarla a risolvere la situazione. Scatterà il classico idillio tra le due ragazze che porterà, oltre ad un'amicizia invulnerabile, alla consapevolezza delle proprie debolezze e della ripetuta corruzione dell'universo maschile. Ma fortunatamente nel cinema di Hong Kong nulla è mai come sembra e come una doccia fredda il film si ingolfa regalando il più spietato, imprevedibile e destabilizzante triangolo amoroso da molti anni a questa parte.
Un film imprevedibile e inaspettato, decisamente da vedere.