Destiny: The Tale of Kamakura

Voto dell'autore: 3/5

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Takashi Yamazaki sembra fortemente appassionato di trasposizioni (v. il precedente Parasyte) e dei manga di Ryohei Saigan (di cui aveva già tradotto delle opere in live action nei film di Always).

E in un anno in cui in Corea del Sud ha fatto scintille ai botteghini Along with the Gods con la sua visione dell'aldilà postmoderna e speculare alla realtà terrena, ecco che questo Destiny: The Tale of Kamakura, in parte sembra raccoglierne alcuni umori e riproporli in un contesto rurale fortemente personale e riconoscibile.

Il regista non osa nulla, ma si attiene alle corde che sa muovere meglio, quelle del dramma agrodolce bagnato di ironia, con soventi insistenze in ambiti più commoventi. Nulla da dire. Il film sembra nient'altro che Always con gli spiriti del folklore giapponese. Non tanto gli yokai, ma gli spiriti rurali che vivono in una dimensione parallela ma contigua a quella degli uomini. Culto dei morti, quindi, reincarnazione, buffi traghettatori degli inferi e viaggi nell'aldilà per recuperare l'amata.

Nulla si può dire in questo senso al regista che fa al meglio il proprio lavoro. Ma guardando i suoi film si ha, sempre, la sensazione che manchi qualcosa.

Takashi Yamazaki nasce come effettista digitale ed è proprio quando entrano in campo gli effetti che riesce a dare il meglio di sé, come ha dimostrato magistralmente in Parasyte. Nel resto del film si avverte sempre una vaga freddezza, un distacco e un atteggiamento anonimo alla regia.

Non una brutta regia, ma priva di un mordente, di un'impronta, di un polso che sappia spingere e incidere di più nella narrazione e nelle emozioni evocate.

Il cast funziona ed è decisamente mimetico all'apparato visivo del manga, con Masato Sakai e Mitsuki Takahata nei panni dei due protagonisti affiancati da attori di ottima caratura come Mikako Ichikawa (Shin Godzilla) e Jun Kunimura (Audition), tra gli altri.

Per il resto Destiny: the Tale of Kamamura è una partita vinta perché lontano da quello che potrebbe aspettarsi uno spettatore (specie occidentale), poco sensazionalistico e di azione, ma intimo e in punta di penna, tranne nell'esplosivo finale.

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