Enemy Shadow

Voto dell'autore: 4/5

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Enemy ShadowSolitamente quando si parla (poco a dire il vero) di questo noir urbano hongkonghese lo si definisce come un melange tra Wong Kar-wai e John Woo. Il perché è presto detto; Enemy Shadow fonde un’esilissima storia smontata e mescolata come nel gioco delle tre carte, ad uno stile e una fotografia ricercati e perennemente stravolti, il tutto addizionato da un’aura ostentatamente “arty” e una preponderanza di voce off introspettiva (che in realtà dice spesso ben poco e con una dose di retorica oltre il limite). Circa l’80% delle inquadrature del film sono forzate e ritoccate da continui viraggi, effetti stroboscopici, ralenti, step framing, fermo immagini e da eccessi cromatici tendenti al monocromo. Una volta girate le carte e scoperto il bluff del regista, che di spessore ne ha invece ben poco, si può osservare il film in sé che regala non poche sorprese; visivamente è assolutamente appagante, accecante, inventivo, diventando quasi fastidioso. Tra tutti gli attori, incanta letteralmente la presenza di una delle reginette dei film action femminili, Jade Leung (Black Cat), energica e perennemente con il suo angelico viso da bambola kokeshi, recentemente tornata a farsi notare al cinema in Kung Fu Mahjong.
Una poliziotta (Jade Leung) assiste ad una rapina nel corso della quale è abbattuto un suo collega e partner. La ragazza lascia la polizia e si innamora di un uomo (James Pak) che scoprirà essere l’assassino della rapina ma, al contempo, non può fare affidamento nemmeno sul capo della polizia suo amico che si rivela un assassino spietato in caccia di alcuna refurtiva. Sarà una continua riflessione e conflitto morale inframezzato da sequenze action violente ed efficaci e continui slanci verso l’attaccarsi alla vita e alle persone.
Se si riesce a superare la noia che di tanto in tanto fa capolino e se si sopporta l’aura intellettualoide visibilmente “costruita” anche se assolutamente ben architettata, il film può gratificare grazie soprattutto al suo linguaggio libero e barocco e ad alcune sequenze decisamente ottime, una su tutte quella che pone i protagonisti di fronte al classico incontro con dei triadosi in relazione ad uno scambio merce-denaro; l’aspetto inedito sono gli ambienti e il character design dei malviventi, rappresentati come una microcomunità hippy rilassata e placida ritiratasi in una baraccopoli scaldata dal sole e allietata dai suoni degli strumenti suonati dai membri del gruppo. L’elemento più straordinario dell’intera operazione trova il suo essere in una riflessione più ampia, ovvero quella riferita a oggetti pionieri e agli episodi di derivazione; quando di solito c’è il successo di un film –anche ad Hong Kong- nascono decine di film simili, tutti uguali, fino alla saturazione del filone o sottofilone. Invece nel caso del noir hongkonghese (ed ad oggi, 2007, sembra l’unico genere a pregiarsi di questo avvenimento) sono continuati ad essere prodotti film di discendenza diretta ma molto diversi l’uno dall’altro, sperimentali, inventivi, magari non tutti perfetti come in questo caso, ma spesso assolutamente rigeneranti e/o degni di attenzione. E anche questo è uno dei mille eventi unici e anomali espressi negli anni dal cinema di Hong Kong.