Fine, Totally Fine

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Fine, Totally FineL’umorismo stralunato, a volte volgare, a volte semplicemente assurdo e tenero di questa commedia ricorda molto da vicino il cinema di Itami Juzo (Tanpopo, Marusa non Onna) e del regista-attore Takenaka Naoto, popolare nei primi anni Novanta per aver realizzato Muno no Hito (L’incapace) vincitore nel 1991 del premio FIPRESCI a Venezia.

Fine, Totally Fine inizia sulla riva sassosa di un fiume dove una barbona rovista tra la spazzatura in cerca di strani oggetti da attaccare con lo scotch per le sue stranissime creazioni, sorta di bambole fatte con tutti i resti che riesce a racimolare tra i rifiuti. E’ fin da subito, quello di Fine, un mondo di marginali, di outsider ai bordi della società, il fiume, e della malattia mentale, della totale incapacità appunto di far parte del consorzio umano nei termini di una cosiddetta normalità. Ma non prendiamoci troppo sul serio: è alla fine una commedia che fa sorridere e a volte ridere sfacciatamente. A osservare la barbona, da lontano, con un binocolo è una giovane ragazza, che la spia per ritrarla in una serie di splendidi e vivacissimi disegni, che la colgono in diversi momenti della sua vita di tutti i giorni, come sotto la pioggia con un ombrello nero aperto sopra la testa, o mente mangia la sua zuppa.
Il protagonista del film è però Teruo, (Arakawa Yoshiyoshi), un trentenne, con le facoltà mentali di un tredicenne, che gestisce assieme al padre, catatonico e depresso patologico, una piccola libreria in un quartiere periferico e per metà della giornata lavora come operaio e giardiniere nei parchi della città. Teruo ha un hobby particolare: si diverte a spaventare in tutti modi la gente. Ha in casa una serie di gadget, una collezione di creature mostruose, di schifezze varie di ogni forma e colore e si diverte con gli amici a girare una sorta di strampalato snuff-movie.
Teruo vorrebbe aprire una delle più grandi Case degli Orrori mai viste, si diverte con burle a dir poco spaventose e disgustose, senza pensare minimamente a cambiare. I suoi amici non sono da meno; Hisanobu, apparentemente il più serio, che lavora come impiegato in una clinica, lo redarguisce, ma poi capisce che non c’è niente da fare, l’amico resterà lo stesso probabilmente per tutta la vita.
La ragazza vista all’inizio, è Akari, dolcissima, carinissima, ma incredibilmente goffa. Quando la ragazza si presenta da Hisanobu per il colloquio è appena stata pestata letteralmente da una passante che le ha chiesto di scattarle una foto, a cui lei, tremando senza motivo, ha fatto cadere rompendola, la macchina fotografica. Non solo, ma Akari, assunta come infermiera, si  rende protagonista di assurdi incidenti ai danni di se stessa, come rompersi un dito premendo il pulsante dell’ascensore o scivolare e spaccarsi una gamba mentre sta pulendo una pozza di sangue in una sala operatoria. Hisanobu e Teruo, ne sono entrambi conquistati, ma lei preferirà a loro un altro ragazzo, un artista che la porterà a vivere con lui a Nara.

Nessuno sembra nemmeno porsi il problema se non per poco, di assumersi impegni o responsabilità. Semplicemente esula dalla loro possibilità, è al di sopra delle loro forze. E va bene così, potremmo dire, traducendo in italiano il bel titolo originale giapponese. Le battute, le scenette, le trovate si susseguono, ma sono venate, nella loro leggerezza, di una tristezza e di una malinconia surreali. Ognuno alla fine, sembra, nonostante tutto, trovare il suo posto nella vita, smettendo di pretendere di prendere le cose sul serio. Stiamo bene così….