Himizu

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himizu

Sumida è il nome del fiume che attraversa Tokyo. Navigandolo è possibile vedere lungo i suoi argini, centinai di piccoli rifugi costruiti con materiale di recupero, cassette di legno, rottami e gli inconfondibili teli blu impermeabili che proteggono dalle piogge le abitazioni di fortuna dei senzatetto della città.

Sumida è anche il nome di un quattordicenne che abita con la madre alcolista in un piccolo capanno in cui si noleggiano imbarcazioni, protagonista di “Himizu”, manga di Furuya Minoru del 2000 e poi film diretto da Sion Sono nel 2011. Anno dell’inenarrabile catastrofe del 11 marzo che ha piegato le gambe al Paese. Eppure Sion Sono prova a narrarcela, attraverso la storia di Sumida e del suo piccolo capanno in cui si svolge buona parte della storia. Tra il fiume e l’umile abitazione ci sono solo pochi metri di fango e sassi e più in là, verso l’orizzonte, un altro capanno sommerso per metà dall’acqua. Sumida ed i suoi vicini di casa, alcuni senzatetto a cui lui permette di usare il proprio bagno, spesso indugiano e contemplano il rudere sommerso.

«Mi ricorda quello che è successo» urla uno di loro.
«Lo faremo sparire. Lo toglieremo da lì» lo rassicura il più anziano, un imprenditore che ha perso tutto a causa dello tsunami. Eppure da lì, nessuno lo muove e lì rimane fino alla fine.

Per evidenti ragioni cronologiche il fumetto di Furuya Minoru, pubblicato su Young Magazine tra il 2000 e il 2001, non affronta la questione della catastrofe, ma focalizza la sua attenzione sulla vicenda personale di Sumida e dei suoi amici, cristallizzando le loro vite nell’attimo preciso in cui si stanno preparando al passaggio dall’adolescenza all’età adulta, in un mondo in cui però non esiste saggezza. Gli “adulti”, quelli che dovrebbero guidare e aprire la strada ai più giovani, sono madri alcoliste e assenti, padri disonesti e violenti, ladri amorali e pederasta bugiardi. Gli amici di Sumida (nel manga) sono Akada con il suo grande sogno di diventare mangaka seguendo le orme del fratello maggiore, ma che ha fretta, troppa fretta. C’è Yoruno, il cui unico sogno è quello di fare soldi ad ogni costo e Keiko Chazawa, ragazza enigmatica e cupa, innamorata di Sumida che invece, di sogni non ne ha e non vuole averne.

L’assenza di saggezza degli adulti, nella trasposizione cinematografica del manga, assume una doppia valenza: quella emotiva e quella sociale. Che mondo stiamo lasciando ai nostri figli? Le notizie delle evacuazioni, delle contaminazioni nucleari e del disastro dello tsunami, gracchiate dai notiziari accompagnano come un mantra il percorso emotivo e psicologico di Sumida.

La devastazione ambientale, l’assenza di morale, la celebrazione di falsi miti sono come un cappio che i genitori stessi stringono attorno al collo dei propri figli. Come la madre, viziata e psicolabile di Chazawa, che sta costruendo una forca nella sala da pranzo su cui si dovrà impiccare Chazawa.

«Lei è la rovina della nostra felicità» piagnucola la madre intanto che con il padre, vernicia e decora la forca destinata alla figlia.
«Senza di te, andava tutto bene» dice invece il padre di Sumida, biasimandolo per non essere morto da piccolo nel fiume. «Avrei riscosso l’assicurazione se non ti fossi salvato» gli confessa ogni volta che è ubriaco.

L’egoismo dei padri rende insostenibile il confronto con i figli e la loro stessa coesistenza, come se questi ultimi fossero la prova concreta e fatta carne del loro fallimento. E quando lo scontro tra Sumida e suo padre raggiunge l’apice, vediamo i due uomini stesi uno accanto all’altro. Sumida si rannicchia in posizione fetale nella fossa che ha scavato per il padre. Piange ed urla disperato. È immerso nel fango, come neonato ricoperto di placenta che viene dato alla luce dalla terra, pronto ad iniziare la sua nuova vita. Quale? Quella di una personale normale. Un adulto “decente” e onesto, come spesso afferma.

«Non so distinguere il bene dal male» confessa il ragazzo a Chazawa, quando decide di dedicare la sua vita a “ripulire” la città dalle persone cattive, per rendersi utile alla società. Persone cattive e perdenti, come quel ragazzo sull’autobus che, rimproverato da una donna anziana per non aver lasciato il posto ad una donna incinta, reagisce accoltellandola. «Che fine ha fatto la buona educazione?» lo incalza, prima di venir trafitta dal coltello.

Ed è sullo scontro generazionale, sulle colpe degli adulti che ricadono sui più giovani, che Sion Sono decide di raccontare il disastro ambientale (e sociale) dell’11 marzo. Un mea culpa, una confessione di una generazione cresciuta col mito dello sviluppo e della ricchezza, senza se e senza ma, che sta lasciando le rovine di un mondo arido e devastato alle generazioni future.

«Lasciami perdere. Che cosa vuoi? Quello che faccio è una mia scelta» gli dice una donna in biancheria intima, ricoperta di lividi che va a buttare la spazzatura con una catena attaccata alla caviglia. Sul suo corpo nudo c’è scritto “puttana”. Come una società malata, incapace di fare i conti con se stessa, che si crede consapevole e padrona del proprio misero destino.
«Non bisogna arrendersi» urlano Sumida e Chazawa correndo, con le immagini della devastazione del Sendai come sfondo.

Non bisogna arrendersi.

Recensione  a cura di Valeria Brignani

 

Sono ritorna a Venezia dopo Cold Fish, confermando i punti forti e le debolezze che contraddistinguevano già le prove precedenti. Sono si candida a esploratore magniloquente e eccessivo, ma anche lucido e cinico della società giapponese contemporanea, in questo caso del dopo diastro dell’11 marzo. Costretto suo malgrado ad affrontare l’attualità, lo fa coi suoi  tempi e i suoi modi, retorici, enfatici, urlati, secondo molti, ma anche tremendamente consoni all’indole reale del suo paese, disperato, ma anche privo di compassione. Brutale e vivido.
Nessun cinema giapponese al momento riflette meglio la situazione e i sentimenti, i nodi irrisolti, di una società forte, ma anche irrimediabilmente indifesa. Il silenzio è assordante e pieno di sfrigolii e vibrazioni elettriche tra i rottami. E in questo paesaggio lunare, una ragazza declama le parole di una poesia di François Villon: “Conosco ogni cosa, conosco i puntini neri nel bianco, conosco le mosche nel latte. Conosco la differenza tra chi lavora e chi è pigro. Conosco ogni cosa, ma non conosco me stesso.”

Chazawa e Sumida sono due adolescenti. Lui gestisce  come può un noleggio di barche, la madre lo ignora e il padre si fa vivo, sempre ubriaco, solo per picchiarlo e chiedergli soldi. Gli rinfaccia continuamente di non essere morto, quando da piccolo stava per affogare, così almeno avrebbe intascato l’assicurazione. La madre di lei, invece, le ha eretto un cappio per impiccarsi in camera. Abbandonati e rifiutati, circondati da adulti allo sbando, la loro reazione è agli antipodi. Sumida non crede affatto nell’unicità di ogni essere, nella fondamentale capacità di ogni uomo di salvarsi e rialzarsi. Ride alle parole del suo insegnante, che cerca di infondere coraggio ai suoi studenti, inneggiando all’ordinaria e mediocre normalità. Nessuno è speciale. Nessuno è un fiore unico e raro.
Una notte, all’ennesima aggressione da parte del padre, Sumida lo uccide mentre la madre intanto è scomparsa. In seguito, uno yakuza si fa vivo per esigere un debito di 6 milioni di yen. Chazawa ama Sumida e nonostante lui la respinga con schiaffi, botte e insulti, lei continua a stargli accanto. Sarà l’anziano Yoruno, che ha perso tutto con lo tsunami, a pagare la somma  al gangster. Il perché lo spiega chiaramente:” Noi siamo il passato, loro sono il futuro.”

Due generazioni a confronto, dunque. Una che non ha più nulla, ormai finita, e una che avrà la pesante responsabilità di ricostruire un paese distrutto. Una che ha un domani, una che guarda solo indietro, chiedendosi quali sbagli abbia commesso. Chazawa è insistente, cocciuta, fastidiosa, ma non si arrende. Sumida, invece, scava nell’orrore che lo circonda, nella follia, con la violenza.
Sono è sicuramente sopra le righe, lo era anche in Love Exposure, ridondante, con una colonna sonora classica pomposa, calca sul grottesco e il nonsense, procedendo per accumulo emotivo e narrativo, senza porsi un freno. Meno sangue, meno catastrofe e toni profetici, ma non meno crudeltà. Forse era necessario alzare il volume, forse il regista voleva urlare. Forse voleva abbandonare l’idea che gli occidentali hanno della dignitosa compostezza nel reagire alle tragedie che si ha del popolo giapponese. “Ashita ga aru”, “abbiamo un domani” recita uno sciocco ritornello televisivo nipponico, ma funzionava, ha funzionato fino ad ora per motivare uomini e donne stanchi, provati, repressi. Ma l’incoraggiamento di Chazawa, il suo indefesso continuare a incitarlo e convincerlo a costruirsi una vita migliore insieme, è forse l’immagine migliore di speranza che ci si possa augurare, per quanto trita e ripetitiva. Rimettersi in piedi, semplicemente, è quello che conta di più adesso. L’importante è riuscirci.

Recensione  a cura di Cecilia Collaoni