Holy Weapon

Voto dell'autore: 3/5
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Holy WeaponLa base di quello che si è scritto riguardo a Holy Weapon è il fatto di essere uscito dopo (e di averne seguito la lezione) di The Eagle Shooting Heroes e di essere simile al contemporaneo Flying Dagger. In realtà, dopo le varie menzioni all’epoca della (ri)scoperta italica del cinema di Hong Kong dei tardi anni ’90 di questo film si sono perse un po’ le tracce e la voglia di parlarne. Paradossale, visto che si tratta di una delle opere più debordanti ed eccessive (e quindi rappresentative) del cinema dell’ex colonia post new wave e pre landover. Non un classico, né un’opera imprescindibile, siamo d’accordo, ma sicuramente come hanno scritto Nazzaro e Tagliacozzo “Holy Weapon è il cinema più libero del mondo”(1)
E quindi di conseguenza uno di quelli che meglio incarna certi umori proprio del cinema di Hong Kong del suo periodo più vivo, libero e imprevedibile.
Sempre il duo di colleghi sopracitati arriva a definirlo “un incrocio tra i Monty Python, Chang Cheh, Mariano Laurenti (!) e Ching Siu-tung”. (2)
Certo è che basterebbe sbirciare tra i credits per farsi un’idea di quanti talenti sono stati coinvolti nel film; si affiancano alla regia di Wong Jing le coreografie marziali del maestro Ching Siu-tung (Swordsman, Storia di Fantasmi Cinesi) e un cast a dir poco stellare: Simon Yam (Exiled, Election), Damian Lau Chung-yun (Duel to the Death), Michele Yeoh (La Tigre e il Dragone, Heroic Trio). Maggie Cheung (Heroic Trio, Irma Vep), Carol Cheng (The Top Bet), Ng Man-tat (Shaolin Soccer, King of Comedy), Sandra Ng (Golden Chicken, Infernal Affairs).
Il film in parte risponde alle aspettative del cinema di Wong Jing del periodo, ovvero separa due tranche di film pregne di eccessivo e incredibile senso dell’azione e del meraviglioso, ponendole a inizio e fine e farcendole al centro da tonnellate di horror, fantasy e soprattutto commedia degli equivoci sessuali. Il melange riesce visto che la becera partitura comica è più riuscita del solito (anche se probabilmente abbastanza irritante per uno spettatore poco avvezzo al genere) e il fantasy che si muove dai “fantasmi cinesi” di Ching Siu-tung a La Casa di Raimi si rivela coinvolgente.
Mo-kak (Damian Lau ) anche conosciuto come Heaven Sword è uno spadaccino invincibile che sfida e batte Fa Do (Simon Yam) detto Super Sword, potentissimo guerriero giapponese che da solo aveva abbattuto un intero esercito grazie alle sue abilità marziali e al suo potere di tramutarsi in una lama. Ma dietro la vittoria di Mo-kak si nascondeva l’utilizzo di una potentissima droga che lo fa impazzire e addormentare proprio prima delle nozze con Ching-sze (Michele Yeoh), mentre Fa Do minaccia di tornare dopo tre anni. Il resto del film mostra l’adunata di sette guerriere (sei, a dire la verità, a cui si somma il personaggio interpretato da Dicky Cheung trasformato in donna per mezzo di una pozione magica) che tramite lo studio di un volume segreto riusciranno ad “assemblarsi” formando un colosso umano nello stile dei robot componibili giapponesi, al fine di battere il ritorno di Fa Do.
L’eccesso è alla base del film in ogni sua componente; le straordinarie e irripetibili coreografie di Ching Siu-tung regalano dei duelli aerei impressionanti dove i guerrieri fanno uso di poteri e oggetti mastodontici pur di battere l’avversario. Dall’altra parte è un florilegio di battute e mini scene comiche, da quella in cui Dicky Cheung muta in donna e dialoga con il proprio pene (in forma antropomorfa) prima che se ne vada, alla gag della collina dei gay, passando per ghigliottine volanti frulla seni, pozioni che rallentano i movimenti, baci che provocano l’amore istantaneo profusi alla persona sbagliata e sequenze sentimentali quasi toccanti; alla ricerca del “fiore dell’amore” (ingrediente fondamentale per una svolta del film), pianta dotata della possibilità di camminare, il duetto tra due ragazze, una innamorata dell’altra che crede un uomo, permetterà la cattura del fiore che è attratto dagli eccessi di romanticismo.
E poi la classica ultraviolenza nei duelli in cui mai nessun essere umano riesce a morire conservando l’integrità del corpo; decapitazioni, corpi deflagrati, perforazioni, smembramenti in un caos splatter carnevalesco e furioso. “Il cinema più libero del mondo”, appunto.

(1) Nazzaro A. Giona, Tagliacozzo Andrea, Il Cinema di Hong Kong, Spade, kung fu, pistole, fantasmi, Le Mani, Genova, 1997

(2) idem