Home Sweet Home

Voto dell'autore: 3/5

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Home Sweet HomeDopo lo stupefacente noir Love Battlefield, è tempo per Soi Cheang di tornare al genere che l’ha reso celebre, l’horror. Ma non si tratta di un ritorno ai fasti di film come Horror Hotline o New Blood, bensì alle atmosfere introspettive e claustrofobiche del suo precedente Diamond Hill. La scelta è assolutamente coraggiosa e rischiosa. Se inizialmente il film sembra un pezzo buono del new horror sulla scia di quello nipponico, ricordando i vari Dark Water, e tanti film di case possedute e fantasmi famigliari, ben presto Home Sweet Home si dimostra più una specie di La Casa Nera di Craven esponenzialmente più disperato. In questo modo Soi Cheang dirige il film di Hong Kong più politico e coraggioso dell’anno con riflessioni sociali che probabilmente non venivamo più mostrate dai tempi di Cageman (Jacob Cheung, 1992). La prima mezz’ora fila via che è una meraviglia, corre vorticosa senza fermarsi mai, mettendo in scena tutte le marche semantiche immediate dell’horror, con sapienza e perfezione. Il regista fa quello che gli riesce meglio, esplorare e raccontare le architetture urbane, stavolta soprattutto in interni; sprofonda nelle pareti, si infila nei condotti di areazione, analizza con curiosità le linee rette delle mura di un enorme condominio, scivola verticalmente lungo il camino dell’ascensore. Purtroppo dopo un po’ sopraggiunge una parte di stanchezza narrativa, la sceneggiatura arranca raccontando il nulla per troppo tempo e inanellando due o tre coincidenze di troppo. Non aiuta la recitazione degli attori tutti un po’ sotto tono (inclusa Shu Qi che rantola con le solite due facce standard). Ma se la sceneggiatura langue il soggetto che la sottende è molto intenso e complesso, contrappone figure di donne, problematiche legate alla maternità, dramma dei senza tetto e sgomberi urbani dovuti alla vorace semina di grattacieli, intense derive sociali di inusitata disperazione in modo del tutto inaspettato e sorprendente. Non possiede nulla di allettante o gradevole il film, né personaggi puliti da adottare, né un ritmo sinuoso e infila la bella Karina Lam (Koma) sotto un pesante make up che devasta la sua luminosa bellezza giovanile. Nulla di meno allettante per un pubblico che dalla parola “horror asiatico” pretende ormai solo determinati stimoli apparentemente codificati. Ma che coraggio per il regista il continuare ad adottare scelte assolutamente fuori moda e contrarie al gusto comune, l’inseguire una poetica autoriale senza compromessi. Lo stile di Soi Cheang è esemplare, come al solito, ennesima dimostrazione del talento di quello che è ormai innegabilmente uno dei registi più interessanti del cinema dell’ex colonia inglese.
Moglie, marito e bambino dopo molta fatica riescono a trovare un appartamento all’interno di un enorme palazzone moderno. Tutto sembrerebbe troppo bello se non fosse per una presenza inquietante che sembra spiare la famiglia da ogni intercapedine delle fondamenta del palazzo. Improvvisamente il bambino cade dal tetto di fronte agli occhi della madre disperata, salvo poi scomparire senza lasciare traccia. Quando dai tubi dell’aereazione si inizieranno ad udire i pianti di un bambino sarà uno scontro tra madri, classi, città. Home Sweet Home è un horror meno conciliante del solito e che impone continue prese di posizione fastidiose da parte del pubblico.
Nonostante la parziale delusione dovuta alla struttura traballante della partitura narrativa, non si può che applaudire il coraggio e l’innegabile talento del regista che ad ogni progetto continua a dare prova di essere uno dei nomi più interessanti del cinema di Hong Kong.