Inuneko

Voto dell'autore: 3/5

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Inu NekoChe il Giappone (geo e cinematografico) non sia un arcipelago semplice da “capire” è cosa ovvia anche per il semplice uomo della strada. Il cinema giapponese moderno comprende tutto e il contrario di tutto. Basti pensare al cinema di Miike Takashi, che nella sua estrema frammentarietà di generi e di temi ne è, a suo modo, una piccola allegoria. Non deve quindi stupire che a rappresentare questo paese al Torino Film festival 2004, nel Concorso Ufficiale, ci fossero due film tanto distanti tra loro come Kyashan - La Rinascita e Inu Neko, rispettivamente un high-budget e un low-budget, una macchina roboante e un piccolo film introverso e sentimentale (sentimentale inteso nella sua accezione meno patetico/melodrammatica possibile, per carità). Ed ora il film.

Suzu e Yoko, vent’anni, sono due giovani donne che si trovano a dividere lo stesso appartamento dopo che una loro amica comune, Abe, lascia il Giappone per seguire un corso di fotografia in Cina. Suzu e Yoko, come suggerisce il titolo originale, Inu Neko, sono come cane e gatto: Suzu è disordinata, estroversa, solare e porta le lenti a contatto; Yoko è l’esatto opposto, introversa, riflessiva, incline a piccoli atti di auto-mutilazione, consci o inconsci, non si capisce bene  (“quando sono triste mi faccio sempre male”: e qui abbiamo un piccolo indizio che lo sguardo femminile della Iguchi è ben più profondo e attento di quanto si crede) e, naturalmente, porta gli occhiali. Tra le due, un gatto, Moo (o Mu?), dal pelo scuro e dal passo felpato, che attraversa il film come silenzioso e misterioso “osservatore” delle ragazze. Le due donne si incontrano, convivono, litigano, si riappacificano…

La storia si svolge con leggerezza e semplicità zen, senza grossi colpi di scena e con qualche tocco (gentile) di humour. Una storia semplice e profonda, molto letteraria, unita a uno stile che può ricordare certi film di Ozu, soprattutto nella dialettica tra spazio interno ed esterno: vedi le scene in cui una le due protagoniste siedono sull’uscio di casa, aspettando, chiara e limpida (forse troppo) metafora dell’incertezza tra casa, giovinezza, sicurezza e mondo esterno, maturità, paura del futuro… ma, insomma, a parte qualche piccola ingenuità e qualche lentezza di troppo, siamo di fronte a un esordio davvero intelligente e dallo stile “adulto”, che come giustamente anche altri hanno ricordato, si può tranquillamente accomunare (per tema e stile) all’ultimo Hou Hsiao-Hsien Café Lumière, visto a Venezia.