Karate Bearfighter

Voto dell'autore: 3/5
InguardabilePassabilePiacevoleConsigliatoImperdibile (No Ratings Yet)

Karate Bearfighter esce nei cinema solo dopo 4 mesi il primo film (Karate Bullfighter). Bisognava cavalcare l’onda e sfruttare al massimo la popolarità in continua ascesa di Masutatsu ”Hand of God” Oyama.
Chiba e Yamaguchi non si fanno pregare, ormai affiatati non lasciano nulla al caso, anzi spingono sull’acceleratore trasformando il plot del secondo capitolo in una perfetta amalgama tra un kung fu-movie di Hong Kong e il manga dal quale è tratta la sceneggiatura. Il risultato è una sintesi melodrammatica “da domenica pomeriggio” punteggiata con scene d’azione weirdo e dai richiami mistico-marziali-zen (passatemi il termine). Non fraintendeteci, gli spunti interessanti non mancano di certo, peccato siano immolati sull’altare del dio dell’exploitation.

L’incipit cita spudoratamente i classici di Chang Cheh e Liu Chia Liang. I titoli di testa scorrono, mentre il vero Masutatsu Oyama (sempre presente sul set) esegue un kata in uno studio. Il secondo a dimostrare di che pasta è fatto è Mr. Sonny Chiba, esibendosi in una simulazione di combattimento con la grinta che gli è tipica. I titoli finiscono in crescendo mostrando Masutatsu Oyama e i suoi allievi intenti nella respirazione tipica del Karate. L’atmosfera è quella giusta e si entra subito nel vivo del film!

Oyama dopo aver battuto tutti gli avversari in ogni torneo possibile e immaginabile, non viene ancora accettato dall’associazione nazionale del Karate, visto che il suo stile è ritenuto troppo violento. Deluso ancora una volta dalle “istituzioni” parte per un viaggio che lo porta a sfidare i maggiori campioni di tutte le scuole giapponesi uscendone sempre vincitore. Questa vita ai margini della società trasforma il nostro eroe in un alcolizzato e malavitoso al soldo di un suo ex-commilitone nel frattempo divenuto boss della Yakuza.
Oyama intraprende così la carriera del guardaspalle. Da segnalare il completo bianco corredato da un soprabito rigorosamente posato sulle spalle, look “cool” che lo accompagnerà per metà film.
Chiba non è nuovo a quest’abbigliamento da mafioso glamour, esibisce le sue “mise” anche in film come: Yokohama Underworld: The Machine-Gun Dragon, un yakuza eiga del 1978, e nello specifico un completo rosso-valentino trafugato direttamente dagli armadi di Renato Zero, anche se il top in quanto a varietà e cambi di costumi di scena lo raggiunge nel poliziesco/yakuza/action Yakuza Deka (1970), ma di questo ne parleremo nell’apposita recensione. Lasciamo stare quindi, elucubrazioni ondivaghe alla Non Solo Moda e torniamo alla storia.
L’incontro con Chiyako la vecchia fiamma di sempre fa rinsavire Oyama che “torna straccione” e sulla retta di via. Il destino però, ha in serbo ancora parecchie sorprese, il più delle quali sgradevoli.
Apriamo una piccola parentesi per parlare di Chiyako, la bellissima Takigawa Yumi, sacrificata in un ruolo secondario ed impiegata con astuzia per sbloccare la storia dai cosiddetti “dead end”.
La figura di Chiyako rappresenta un po’ il Giappone moderno, un Giappone che cerca di risollevarsi dalle ceneri della guerra guardando ad un futuro di integrazione con il resto del mondo. Oyama si appellerà alla forza della donna per risorgere come una fenice, riscoprendo il vero spirito del karate anestetizzato dall’alcol e da una vita dissoluta.

La trama di questo secondo episodio è sorretta dagli stessi espedienti usati nel primo film: al protagonista viene fatto toccare il fondo e poi risalire la china. Un peccato che succeda troppe volte (contingenze prevedibili al limite della noia) e viene quasi da chiedersi se Masutastu Oyama invece di pestare come un fabbro qualsiasi essere vivente (animali inclusi), si soffermasse un attimo a pensare alle conseguenze delle sue azioni … Come già sottolineato le situazioni riflessive non mancano, altresì interessanti,  peccato soltanto che vengano annacquate in un mare di forzature dovute ad una sceneggiatura con più buchi di un gruviera svizzero, anche se non sono nulla confrontate con lo script dell’ultimo episodio della serie. Uno di questi momenti che, se strutturato meglio nell’economia della storia, avrebbe reso mille volte di più è l’incontro/scontro con il maestro Gunji Uchiyama, esperto nell’uso del “bastone da scherma”. Di fronte alla forza spirituale del vecchio, Oyama capisce che la propria aggressività è un ostacolo alla crescita spirituale/marziale. Solo raggiungendo la pace interiore (MU/nulla) supererà l’ostacolo finale progredendo verso la conoscenza suprema.
Inutile aggiungere che questo stato “ascetico” viene conquistato solo nel duello finale in riva all’oceano, e rappresentato metaforicamente nei titoli di coda da Masutatsu Oyama che attraversa dei cancelli spazzati da una tempesta di neve, mai come in questo caso simbolo di purezza e pace interiore. Tecnicamente Yamaguchi ha assimilato tutto ciò che di buono è stato fatto nei film di kung fu, dalla ripresa con telecamera a mano fino al montaggio frammentario usato da maestri del calibro di Chang Cheh e King Hu. Tra le scene considerate cult, vanno indubbiamente segnalate quella del “pugno-radiografia” già sperimentato in The Street Fighter (1974) ripreso poi in Story of Ricky (1991) e nel più recente Romeo must Die (2000). La feroce lotta contro un orso bruno, meno trash di quello che si possa pensare, è sicuramente più riuscita di una situazione analoga di The Battle Wizard (1977), anche se in quel caso si trattava di uno scimmione allampanato.
In definitiva un buon sequel, con un’ottima interpretazione di Sonny Chiba, sempre più credibile in questo ruolo.