Karate Bullfighter

Voto dell'autore: 4/5
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Primo film di una trilogia interamente dedicata a Masutatsu “MAS” Oyama, maestro e mentore di Sonny Chiba nonché campione giapponese di karate nel 1947. Protagonista di spicco nel mondo delle arti marziali al quale venne dedicato persino un fumetto, morì all’età di 70 anni per cancro ad un polmone.
Il film in effetti si ispira in gran parte al fumetto, privilegiando il lato epico-romantico della vicenda e accentuandone la componente exploitativa.
Parte del merito va ovviamente a Sonny Chiba, calato perfettamente nei panni del mito, con una recitazione indubbiamente sopra le righe, ma efficace e sentita.
La sequenza iniziale è un classico: immagini di allenamento su una spiaggia all’alba, i “karateka” si esibiscono in Kata (forma di combattimento simulato) e in acrobazie tipo salti dentro un cerchio di fuoco; in effetti non sappiamo il legame di questa scena con il karate, ma è molto “cool”.
Gli “opening credits” didattici dei film di Liu Chia-liang sono dietro l’angolo,anche se qui il lato istruttivo viene messo forse in secondo piano, in favore di una visione vojeuristica prettamente “circense”.

“Torneo nazionale giapponese di Karate del 1947”
I tatami sono un campo di battaglia, i contendenti si sfidano l’un l’altro con agonismo e lealtà.  Masutatsu Oyama appare all’improvviso come un fantasma dei Kaidan: karate-gi sporco e lacero, capelli arruffati, sguardo torvo. La sua aura violenta getta un’ ombra oscura e selvaggia sui presenti. “Il lupo è arrivato”. L’iscrizione al torneo è veloce, così come lo sono i suoi combattimenti, lo stile di Oyama è grezzo, violento, ma dannatamente efficace. Ben presto si palesa la finale che lo vede opporsi a Namba (Masashi Ishibashi) attuale campione in carica, dopo un inizio apparente di studio, Oyama manifesta la propria superiorità vincendo - nonostante un trucco irregolare dell’avversario -  che purtroppo rimane gravemente ferito ad un occhio. Un inizio folgorante, tutta la sequenza è girata con telecamera a mano: veloci stacchi di montaggio e zoomate improvvise. Spesso si ha l’impressione che dietro tutto questo, ci siano certi sperimentalismi alla Chang Cheh, forse inconsapevoli, ma tutt’altro che astratti e fini a se stessi. Non a caso i frequenti combattimenti del film sono il momento più attraente dal punto di vista estetico (altro richiamo alla filmografia degli Shaw Brothers).
La violenza parossistica mostrata con dovizia di particolari raggiunge il suo apogeo nello “storico” combattimento a mani nude contro un toro (da annoverare al fianco dell’altrettanto delirante “zombi vs. squalo” in Zombi 2 del maestro Fulci), che ben si sposa con l’impianto scenico grossolano in bilico tra l’epica e il “lacrima-movie”. In tutto questo, c’è posto per una sottile critica sociale al Giappone moderno, pronto ad accettare le regole occidentali abbandonando una tradizione millenaria, rinunciando ad un’identità nazionale mantenuta a fatica. Il Karate moderno per Oyama, è una specie di balletto che ha perso le sue originali caratteristiche, adattandosi a regole sportive accessibili ad una platea più vasta. Questo, il motivo di disaccordo con Nakasone - presidente dell’associazione nazionale del Karate - e motore di gran parte della vicenda filmica.
Un altro spunto interessante è il tema della responsabilità, perché come dice Stan Lee demiurgo dei fumetti supereroistici americani: “Da grandi poteri derivano grandi responsabilità”.
Oyama non a caso, porterà nel cuore l’onere della morte prematura dell’unico allievo, ucciso dall’inesperienza e da un orgoglio causa di tante, troppe morti. Il rimando alla seconda guerra mondiale e ai kamikaze, pensiamo non sia fortuito.
Come se non bastasse, Oyama sarà coinvolto anche in un omicidio, e successivamente assolto per auto-difesa, fatto questo che cambierà notevolmente la sua vita. Momento drammatico del film interpretato da un Chiba dannatamente in parte. Inutile dire che il momento topico di questi film in genere è il combattimento finale. Scontro che vede Oyama battersi senza esclusione di colpi contro decine di karateka, brutti ceffi armati alla bene e meglio e un campione di Tai Chi. Infine l’immancabile Namba deciso a dimostrare la propria superiorità nelle arti marziali, e a vendicare la misera figura fatta al Torneo Nazionale Giapponese di Karate.
Molti film devono il loro successo all’interpretazione degli attori che vi partecipano, e non si può affermare che questo Karate Bullfighter sarebbe stato lo stesso senza l’apporto fondamentale di Shinichi “Sonny” Chiba, star di prima grandezza in Giappone e tornato di recente sotto i riflettori grazie al suo ruolo di Hattori Hanzo nel film di Quentin Tarantino, Kill Bill (2003).
Nome fondamentale del cinema giapponese di genere e non, per almeno tre decadi, Chiba ha collaborato con i più gradi registi del suo paese rischiando spesso in prima linea come produttore delle proprie opere, dimostrando come si possa fare cinema unendo arte e spettacolo.
Tra i protagonisti è doveroso segnalare la presenza del mitico Masashi Ishibashi, già compagno d’avventura di Chiba in The Street Fighter, ancora una volta nel ruolo del “villain”, una parte che indubbiamente gli si addice.
Faremmo un torto a non accennare all’angelica presenza di Takigawa Yumi, attrice conosciuta da tutti gli amanti del cinema giapponese d’annata; titoli come Seijû gakuen aka School of Holy Beast (1974), Jingi no hakaba aka Graveyard of Honor (1975) o il più commerciale Fukkatsu no hi aka Virus (1980) sono solo alcuni dei suoi lavori.
Yamaguchi Kazuhiko, regista di Zubeko Bancho (1971), Sister Streetfighter 1-2-3 (1974-75) e Karate Warriors (1976), è totalmente asservito alla macchina spettacolare, sembra quasi un’estensione di Sonny Chiba, vero “deux ex machina” di questo progetto e dei suoi due sequel.
Da buon mestierante qual è, Yamaguchi si fonde con il “Chiba-pensiero” sfornando tre film d’intrattenimento, soddisfacendo al contempo i cultori delle “mazzate/randellate/botte” e gli spettatori occasionali.
Insomma: un cult imperdibile!