Low Life

Voto dell'autore: 3/5

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Low LifeI festival cinematografici come Venezia (e Cannes, e Berlino, e Torino, e Locarno…) sono luoghi fatati di appassionata cinefilia, grembi caldi dove i cineasti più amati possono dormire sonni tranquilli cullati dai calorosi applausi dei loro fans e sostenitori. E’ il caso di vere e proprie personalità-star del cinema orientale come Beat Takeshi, Tsukamoto Shinya e Miike Takashi, che ricevono ovazioni e applausi a scena aperta a ogni piè sospinto (in questa Venezia 61 se n’è avuta ampia riprova, chi c’era può confermare), anche nel caso di passi falsi e di opere lontane dall’eccellenza. Esiste ovviamente l’eccezione a confermare la regola, ma spiace che a fare le spese di questa regola imbecille sia un decano dei registi coreani come Im Kwon-Taek, che con questo Haryu Insaeng/Riding the Tiger presentava in concorso ufficiale il suo novantanovesimo film, cifra di una carriera davvero impressionante. Il suo film è stato accolto dapprima con un po’ di curiosità, poi liquidato in quattro e quattr’otto e scaffalato nell’armadio dei polpettoni storici, addirittura definito da “Repubblica” una sorta di La Meglio Gioventù in salsa coreana. Figuriamoci. Manco a dirlo, e lasciando da parte militanze e passioni personali, niente di più sbagliato.
La trama del film prende spunto dal caotico clima politico della Sud-Corea degli anni ‘50/’60/’70 (tra rovesciamenti, coup d’etats e manifestazioni studentesche), in cui si snodano speculari le vicende di due gangsters, due piccoli cesari che attraversano la storia del loro paese tra violenza, risse, tradimenti e improbabili investimenti nel mondo del cinema (splendida parentesi che ha fatto sorridere, e a ragione, più d’uno). Inutile raccontare i dettagli e le sotto-trame. Ciò che forse avrebbe dovuto far rizzare le orecchie ai sonnolenti spettatori del festival è la capacità del regista (un tempo lo si sarebbe definito “abile mestierante”, ma di questi tempi si usa andare cauti con certe definizioni) di mescolare l’affresco storico e sociale a una rappresentazione fisica e cruda della violenza (quasi un attributo morale, una necessità fisiologica dei rapporti umani) che ha degni epigoni soltanto in Hong Kong e limitrofi, figurarsi poi in Occidente… Una messa in scena di dinamica vitalità, dove le risse sono risse (a colpi di tae-kwon-do), gli agguati sono agguati e i regolamenti di conti sono carneficine senza pietà, rappresentate con tutta la crudezza necessaria (non vengono risparmiate neppure le donne incinte). Che poi tutti questi addendi, sommati tra loro, non diano adito a stracciamenti di vesti tra il pubblico, forse ammaliato (rincoglionito? niente militanza, si era detto…) da “mari dentro”, “chiavi di casa” e “vere drake”, è anche comprensibile. L’astro nascente Kim Ki-Duk, scornando buona parte della fanfarona critica italiana, ha ristabilito le giuste proporzioni, dedicando al “maestro” Im Kwon-Taek il suo premio veneziano. Un tributo necessario e dovuto che era auspicabile anche dal pubblico, magari con qualche applauso in più a un’opera certamente non epocale ma splendidamente diretta. Forse per il 100° film?