Strange Circus

Voto dell'autore: 4/5

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Strange Circus“Alla nascita, ero già condannata a morte”. Mitsuko, giovane protagonista della prima parte di Strange Circus accompagnata per mano da un grasso clown di derivazione grottesco-queer verso una ghigliottina, mette così in tavola i due capi dell’eterno uroburo dell’esistenza. Non a caso, il film e la sua struttura si avvoltolano in spire circolari che confondono le tre facce della realtà, dell’immaginazione e della loro rispettiva (con)fusione: la follia.

L’ossessione per una sottocultura mortigena e mortifera del corpo e delle sue metamorfosi violente, nel senso più neutro possibile del termine, marchia una certa porzione della cultura artistica e del cinema giapponese esplosa più o meno negli anni '90 con in testa l’opera di Tsukamoto Shinya e Miike Takashi. Sono Sion ne è un sottoprodotto parzialmente distorto dalla lente del cinico/grottesco, e Strange Circus è il suo film più importante.

In bilico tra realtà e finzione è il racconto della follia di Taeko, affermata scrittrice di storie di violenze e perversioni sessuali bloccata su una sedia a rotelle e molto brava a nascondere il suo passato, qualunque esso sia. Al momento del principio del film, Taeko sta scrivendo un racconto che ha come protagonista Mitsuko, una ragazzina dall’adolescenza spezzata tra le molestie del padre e la lussuria sfrenata della madre, quando Yuji, un giovane impiegato della casa editrice che pubblica i suoi libri, si offre di fargli da assistente. La tensione della storia scorre sottotraccia finché Yuji non decide di andare a fondo nella storia della stessa Taeko, scoperchiando un vaso di pandora che precipiterà il racconto verso un finale tragico.
Immagini di atrocità psichica dominano il tappeto di scene montate a incastri, e i continui cambi di piano del racconto vengono tenuti insieme quasi miracolosamente da una gran regia, che raramente altre volte Sono riuscirà a rendere in maniera così funzionale e compatta. Qui invece la mano di Sono è ispiratissima, e il vestito di trame e sottotrame al limite del delirante calzano a pennello nella mente un po’ malata del regista, così come gli calza a pennello sulla testa il suo abituale cappello.
L’analisi di Sono, della follia dei suoi personaggi, e con essa del loro dramma, è spietata e quanto mai a fuoco, lucida; la prova di Miyazaki Masumi nel triplice ruolo di Taeko, di Mitsuko e della stessa madre della ragazzina è sconvolgente per intensità, quasi una violenza del regista sulla sua attrice; l’ambiguità che si respira per la prima parte della storia e l’atmosfera generale del film sono testimoni dello stato di grazia di un regista originale anche per il variegato panorama giapponese, capace in un solo anno, il 2005, di realizzare tre grandi film come Strange Circus, Hazard e Noriko’s Dinner Table, almeno uno dei quali in odore di capolavoro (ed è questo che fa da oggetto alla recensione). E’ pur vero che da allora sembra aver un po’ smarrito la strada, soprattutto quella del controllo sulle proprie storie, che sono diventate sempre meno sintetiche, più ombelicali e meno curate nella scrittura (sino al paraculismo del recente Himizu, in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia), ma ai tempi era in forma smagliante e Strange Circus è una visione che ci sentiamo di consigliare a tutti, meglio ancora se in gruppo e seguita da apposito brainstorming e sessione di discussione su temi/personaggi/vicende. Siate avvisati che di ciccia per gatti (leggi: di cibo per la testa e quindi di materiale per la discussione), che questo pezzo lascia volutamente trasparire ma solo in superficie, dentro a Strange Circus ce n’è parecchia e rischiereste di continuare a parlarne anche per i giorni successivi alla visione; il che, in fondo, è quello che un po’ tutti chiediamo ai grandi film.