Tetsuo II: Body Hammer

Voto dell'autore: 4/5

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È incredibile come Tsukamoto riesca a trasmettere e trattare tematiche molto scomode, molto varie e molto complesse in film che quasi mai raggiungono neppure l’ora e mezza di durata. Questo Tetsuo II: Body Hammer, a parte la principale riflessione sul rapporto uomo/macchina, tratta in modo non troppo velato moltissime altre questioni.
Tetsuo II, fa parte di una trilogia apparente, dato che fra i vari film non c’è collegamento narrativo bensì solamente concettuale. In particolare, questo film nasce dalla volontà del cineasta di rielaborare Tetsuo: The Iron Man del 1989, avendo a disposizione un budget più alto. Invece il terzo capitolo della saga, The Bullet Man del 2009, è una sorta di adattamento occidentale dei primi due film: l’attore protagonista è infatti l’americano Eric Bossick ed è presente stavolta una vera e propria narrazione; molto più dialogica piuttosto che visiva/metaforica. I tre film si completano a vicenda ed è interessante notare che, trattando più o meno tutti gli stessi argomenti, una qualunque opera delle tre avrà sempre qualcosa che manca o meglio che la diversifica dalle altre due.
Questo secondo capitolo, nella durata di 78 minuti, travolge e scombussola lo spettatore in un film inclassificabile. Fra scene d’azione frenetiche, musiche disturbanti e spezzoni di pura video arte, Tsukamoto mette in scena la sempre più crescente rabbia repressa di un uomo, con la conseguente esplosione di essa in una vera e propria metamorfosi del corpo umano. Non a caso intuiamo che il nostro protagonista è il classico impiegato giapponese frustrato e sottomesso e non a caso i colori predominanti della pellicola sono il blu e il grigio. La ripetitività e la monotonia di una demoralizzante vita viene spezzata da un evento tutt’altro che positivo che porterà alle due massime reazioni umane possibili: distruzione e autodistruzione. Nel film sono presenti tantissimi elementi che si possono estrapolare e analizzare: il tema della famiglia, il condizionamento fisico e psicologico di un patriarca sui propri figli, l’impotenza della donna, la ricerca della liberazione del proprio spirito, l’impossibilità di classificare il male o il bene e molto altro, ma soprattutto il rapporto uomo/macchina. Tema trattato dagli anni ’80 e pensato da Shinya Tsukamoto come una vera e propria fusione di due realtà praticamente opposte (naturale e artificiale) che pian piano aumentando sempre di più porteranno solamente rovina e devastazione. O forse no? Negli ultimi cinque minuti avremo un inaspettato finale aperto alle più variegate interpretazioni.
Tsukamoto è un cineasta molto minuzioso, cura praticamente tutti gli aspetti delle sue opere: regia, sceneggiatura, montaggio, fotografia, produzione e anche recitazione. Una cosa molto interessante è il fatto che spesso decida di interpretare le parti  più ambigue, improbabili e malate, come se volesse provare e sentire personalmente tutte le devianze dell’essere umano. Inoltre riesce a passare da frenetiche sequenze con la camera a mano a inquadrature fisse geometricamente perfette e le sue sceneggiature vogliono incessantemente indagare nel profondo la vita e la morte senza però mai dare una vera e propria risoluzione ma facendoci intendere che ogni situazione è sempre e comunque relativa.