The Happiness of the Katakuris

Voto dell'autore: 4/5

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Tematiche riguardanti l’unità familiare e la ricerca della felicità? Mescolanza di generi cinematografici lontani ed opposti? Esagerazione e derisione delle comuni istanze sociali giapponesi? Signore e signori, ecco a voi il maestro Takashi Miike. Immaginate un’opera la cui trama è improntata sulla continua impossibilità della realizzazione del sogno di un uomo, il sogno di vivere e lavorare serenamente con la propria famiglia nell’albergo da loro gestito. Immaginate una “sventura divina” che porta letteralmente la morte a coloro che si avvicinano a questa pensione. Immaginate lo sforzo di una famiglia che nonostante tutti gli scherzi del destino, cerca di andare avanti ad ogni nuova avversità, perché basta vivere assieme in salute e sorridenti per esser soddisfatti della propria vita.

Un film triste e drammatico penserete voi. Meno che mai grazie alla magia di Miike. L’atmosfera che pervade l’opera è quasi costantemente quella di una commedia stile humor nero. Le scene che chiameremo impropriamente d’azione sono realizzate con pupazzi di plastilina con la tecnica dello stop motion. E per finire, spesso e volentieri veniamo catapultati in canzoni, balli e coreografie da musical domestico oltremodo pomposo e sdolcinato.

Partiamo dai protagonisti. Ogni membro rappresenta uno stereotipo familiare bello e buono; dalla ragazza/madre giovane e ingenua al ragazzo ventenne scapestrato e ribelle, dal nonno burbero più saggio e taciturno al padre di famiglia incarnante l’uomo medio giapponese insoddisfatto della vita e del lavoro.

Ma il bello arriva adesso, perché la maggior parte delle scene che ci aspetteremmo drammatiche o comunque sobrie, alla fine della fiera vengono trasformate in ridicole e completamente private della loro serietà, provocando nello spettatore un senso di gran confusione emotiva (ad esempio quando lo shock della famiglia che scopre il cadavere del cliente suicidatosi, è rappresentato non con urla e pianti bensì con coreografie e smorfie da anime/musical per bambini). Per non parlare delle scene più movimentate realizzate in stop motion, le quali, vuoi per scelta stilistica vuoi per mancanza di un alto budget, rendono il tutto più leggero e giocoso.

Il film è una riflessione sulla vita, sulla morte, sulla felicità e sull’amore, e quanto più lo spettatore cerca, tanto più ci troverà. In tutto ciò, “difformità” è ovviamente la parola d’ordine. Dalla continua e folle positività che la famiglia cerca di mantenere, ad un finale più ambiguo che mai, dalla rottura di tutti i soliti cliché cinematografici, ai corteggiamenti di un improbabile personaggio basati su palesi menzogne e assurdità. Ebbene, la genialità dell’opera sta nel meditare sull’esistenza ridicolizzando la stessa, senza però mai cadere nella banalità o nella stupidità. L’opera che si presenta a noi è tutta una gran presa in giro, una grande parodia di come è la società nipponica estremizzandone i caratteri più assurdi ma non per questo non verosimili.

Il film è liberamente tratto da The Quiet Family del 1998, prima opera del regista sudcoreano Kim Jee-Woon; tuttavia si distacca notevolmente dall’opera originale. Scegliendo una regia e un montaggio accurati e moderati, un’ora e cinquanta che vola via leggera guardando un film che anche se non gradito, lascia la consapevolezza di aver visto qualcosa di praticamente unico. La visione è consigliata a tutti gli amanti di Miike e non.