The Heavenly Kings

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The Heavenly KingsNon molto tempo fa si tendeva a considerare Daniel Wu come il solito attore inutile e belloccio, monoespressivo al limite dell’incapacità e giunto al cinema solo grazie al bell’aspetto e alle giuste connivenze. Passano gli anni ma l’opinione comune resta bene o male la stessa, o quantomeno lo è per quel che riguarda la maggior parte dei punti sovraesposti. L’unica sostanziale differenza è che, dopotutto, anche il bistrattatissimo Daniel Wu ha avuto nel frattempo il suo lampo di genio: l’idea è semplice e vecchia come il mondo, quella del cavalcare l’onda e lasciarsi trasportare. Del resto, nel mondo dell’entertainment hongkonghese non è affatto difficile - anzi, è quasi la norma - trovare degli attori che siano allo stesso tempo cantanti o viceversa. Perché non posso cantare anch’io, allora? Questo deve aver pensato Daniel Wu nel momento della sua folgorazione. In fondo non ci vuole troppo. Da lì all’effettiva realizzazione di un qualcosa di concreto non è dovuto passare molto tempo: grazie agli amici Conroy Chan, Terrence Yin e Andrew Lin, Daniel ha potuto così formare una nuova band. Il nome? Gli Alive not Dead. Il genere? Cantopop, ovviamente. Questo The Heavenly Kings altri non è se non un curioso mockumentary girato in digitale che testimonia la genesi e i primi passi dell’improvvisata band, tra alti, bassi e una manciata di ideee geniali: qualche lezione di canto e ballo, la ricerca di un look giusto (a dir poco esilarante la scena che vede i quattro componenti del gruppo alle prese con uno stilista dalle vaghe sfumature queer) e poi via, verso nuove incredibili avventure. Ma nonostante un’esperienza in campo musicale pressochè pari allo zero - se si esclude forse Terrence Yin, che in passato ebbe l’occasione di pubblicare un album per il solo mercato taiwanese - qualcosa di buono gli Alive not Dead sono comunque riusciti a combinare: quella volpe di Daniel Wu ha ben pensato di distribuire anzitempo il primo singolo del gruppo tramite la grande rete, denunciando la cosa alla stampa e creando attorno al tutto un gran polverone mediatico. Il trucchetto ha funzionato e ha così garantito fin da subito una certa notorietà al quartetto. La narrazione avviene tramite continui spezzoni dal backstage, spesso raccontati in prima persona dai componenti stessi della band, e viene accompagnata da innumerevoli interviste a svariate personalità del mondo della musica e dello spettacolo hongkonghese: tra i volti amici che ritroviamo in The Heavenly Kings meriterebbero almeno una citazione i vari Jackie Cheung, Stephen Fung, Candy Lo, Karen Mok e Miriam Yeung, tutte personalità di spicco che con gran simpatia e disponibilità hanno prestato i loro volti per la realizzazione di questa docu-fiction piuttosto anticonvenzionale. Daniel Wu, alla sua prima prova di regista, si diverte nello scandagliare i meandri della fitta selva dell’entertainment dell’ex-colonia senza mai farsi intimidire e non risparmiandosi affatto critiche e frecciatine a tutto il caotico e spesso incomprensibile meccanismo del mercato musicale. Ironico e dissacrante, The Heavenly Kings risulta così un’opera inaspettatamente interessante oltre che divertente, un affascinante spaccato di vita quotidiana nel mondo del canto-pop e delle sue imperscrutabili regole. Davvero una bella sopresa.