What Price Survival

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What Price SurvivalIl passaggio di Hong Kong alla Cina si stava avvicinando e un pugno di registi stava tentando di reagire ad una deriva linguistica della messa in scena della “sequenza” d’azione ormai inflazionata e del tutto resa maniera. Più di un decennio di sfruttamento sistematico, continuo e ripetitivo del wirework aveva portato ad una crisi dello stesso e alla ricerca da parte dei soliti pionieri di uno stile “altro” e di una nuova via per la coreografia marziale. Accompagnava il crepuscolo della coreografia un crepuscolo anche contenutistico e narrativo, in netto contrasto con le tematiche solari e di intrattenimento che andavano per la maggiore, argomenti messi in scena per sollevare il morale di una popolazione timorosa verso un futuro incerto di cui non conosceva e non immaginava gli sviluppi. Non è un caso che questi tentativi di innovazione e sperimentazione stilistica, tutti abbinati ad una visione oscura della  narrazione infatti furono dei flop sonori e spensero questo processo di rinnovamento che portò inesorabilmente alla fine del cinema della coreografia come lo conosciamo attualmente. Se un ventennio prima, i tempi e gli animi erano pronti per una new wave, questo periodo era tutt’altro che fecondo per tentare il nuovo e l’assenza di sicurezze. Gli unici a guadagnarci furono i boss di Hollywood che fuori tempo massimo adottarono uno stile che ad Hong Kong era ormai vecchio, morto e sepolto, raschiato fino al fondo, lo spacciò per la novità e il pubblico mondiale accorse. Il bluff riuscì così come la truffa.

Il fattore principale di questa mini onda fu il tentativo di tagliare i cavi, eliminare il wirework e riportare i combattenti con i piedi per terra nella ricerca spesso di un realismo più fisico e materiale, senza però doversi privare di un’assoluta ed enorme spettacolarità comunque aerea. Questo film, fin troppo poco celebrato, ne fu un esempio straordinario, affiancato lo stesso anno da Ashes of Time, l’unica esperienza registica di Wong Kar-wai nel wuxiapian deflagrato, filtrato attraverso la propria sensibilità autoriale. L’anno successivo esplose artisticamente il vero canto del cigno del metodo, The Blade di Tsui Hark, l’uomo che aveva inaugurato e scritto regole, metodi e stili e che ora stava cercando di demolirli ricreandone di nuovi. Pochi anni dopo tentò la stessa strada anche Donnie Yen nella sua interessante regia Legend of the Wolf. In tutti questi esempi viene anche messo in scena un universo incoerente, non storicamente definito, caotico e oscuro, percorso da corpi e volti perennemente armati e ostili e in cui il codice cavalleresco ha ormai perso ogni significato profondo. Se Chang Cheh aveva fatto del codice d’onore cavalleresco e dell’amicizia virile uno dei suoi simboli tematici, questo film che fin dal titolo originale riecheggia la storia dello spadaccino monco del maestro, lo dribbla e ne presenta una versione riveduta e (s)corretta pre landover. Raccontato è il crepuscolo degli (anti)eroi, un tempo in cui gli spiriti degli avi sussurrano dalla tomba, dove il vento furioso trasporta petali di ciliegio alle vittime sacrificali e dove lo stesso sacrificio è ormai un gesto disperato e privo di effetti tangibili ed epicità. Al contempo il luogo e il tempo dell’azione (alcuni ipotizzano un Giappone degli anni ‘10, altri la Cina degli anni ’30) nonostante un’ipotetica realtà riconducibile, appare come un universo unico e del tutto inedito, una specie di ambientazione alla Heroic Trio. Ma mentre Heroic Trio lavorava con un futuro retrò, questo film mostra un passato nostalgico e ideale, fatto di distese di neve, luoghi deserti, architetture giapponesi, foreste di ciliegi, ferrovie, predoni in motocicletta, catacombe sinistramente illuminate. Il film è un folgorante esordio di Daniel Lee (Till Death do us Part) che nel suo gioco con un’estetica sofisticata e accattivante, profondamente (post)moderna sembra, fatti i debiti paragoni, un Wong Ching Po (Jiang Hu) ante litteram. Così il suo tentativo non è quello di rinnovare la performance quanto l’idea di regia che la sottende. Quindi, nonostante un cast ben collaudato, pregiato di sequenze atletiche impegnative, è però la regia, i movimenti di macchina e il montaggio, quasi sempre scarsamente raccordato negli spostamenti dei corpi atti a costruire l’evento, mentre il wirework è praticamente assente (si nota con una certa sicurezza solo in un paio di inquadrature). Il resto è un susseguirsi di step framing, inquadrature simboliche o esterne alla consequenzialità dell’azione marziale, movimenti dei corpi, dettagli, rumori e musiche. Una delle componenti più interessanti del film è infatti la geniale selezione musicale. Se i rumori degli scontri sono sempre i classici effetti sonori di movimento aereo, la musica che li accompagna (di Chan Yeung) è del tutto inedita; cacofonie industriali, ripetitive e percussive, alternate a musiche d’antan provenienti da grammofoni, insieme ad altre selezioni incisive. Sul finale un frammento musicale extradiegetico è interrotto dal rumore e dal fischio del treno di passaggio che inaugura l’attacco di un'altra canzone –diegetica stavolta- proveniente da un grammofono.

Il regista sceglie un cast per niente casuale. Su tutti David Chiang, spadaccino monco per Chang Cheh (New One Armed Swordsmen, 1971), Norman Chu (We’re Going to Eat You, 1980), Damian Lau (Zu: Warriors from the Magic Mountain, 1983), Charlie Yeung (The Lovers, Seven Swords), tutti attori che prima o dopo avrebbero o avevano lavorato con Tsui Hark in film ormai classici, tanto che successivamente Tsui, probabilmente folgorato dal film, dal regista e dalla selezione del casting produrrà a Daniel Lee il noto La Vendetta della Maschera Nera (Black Mask, 1996). Il regista al suo esordio scrive, dirige, fotografa e monta il film da solo.

E’ scontro tra Wang Ching-kuo (Norman Chu) e Pak Fu-kuo (David Chiang), il secondo perde e Ching-kuo per risparmiargli la vita vuole in cambio Ning, il figlio appena nato dell’uomo. Dopo aver preso il bambino lo educa alla spada e dopo anni lo lancia all’attacco dell’uomo che il ragazzo non sa essere suo padre. Il patricidio avrà esiti fisici e morali catastrofici e darà vita ad una catena di duelli malinconici e crepuscolari dove in gioco viene a sgretolarsi ogni onore e umanità; sotto la spada cadrà l’amicizia, l’amore e i legami familiari.

Un film fondamentale da poggiare definitivamente sul piedistallo che gli spetta, quello del classico.