Horror Asia 2006


Horror 2006Un bilancio

Il cinema horror asiatico è morto e sepolto e quel che ne resta è una visione in carta fotocopia del passato. Lo dicono praticamente tutti, pubblico, giornalisti, accademici. Ora, tralasciando quelli che lo ripudiavano preventivamente fin dall’inizio (l’approccio preventivo è ormai la moda del nuovo secolo) rimane un buon 98% a sostenere questa tesi. Stranamente o ci è andato il cervello in pappa o a noi di Asian Feast questa teoria ci pare decisamente azzardata ed errata, anzi, arriviamo ad affermare che dopo i prototipi del new horror ci troviamo in uno dei periodi più vitali, produttivi e vivaci della storia dell’horror asiatico (e di riflesso, mondiale). Molti potranno accusarci di parzialità sospetta e nel corso dell’articolo cercheremo di proporre un’analisi capillare e approfondita delle nostre teorie ma ci piacerebbe partire da una provocazione; in quale paese del mondo, in un solo anno, sono usciti due lavori rivoluzionari come Imprint di Miike Takashi e Haze di Tsukamoto Shinya?

Certo, stando a quello che arriva in Italia si fa presto a giungere a risultati fuorvianti e anche un film valido come Shutter si presta al fraintendimento, ma solitamente le avversioni su queste basi vengono da un pubblico che parla senza avere la minima consapevolezza del background culturale e dell’immaginario passato della cultura presa in considerazione. L’esempio è ormai abusato ma sarebbe ridicolo dire che i western sono tutti uguali solo perchè è simile l’ambientazione e i costumi dei protagonisti. Quindi è ormai inutile e patetico lamentarsi se all’interno dei film di “fantasmi” si presenta un eccesso di capelli e fanciulle algide quando stiamo parlando di un’iconografia secolare che ha precedenti cinematografici profondi cento anni (date un’occhiata alla galleria fotografica dedicata per farvene un’idea). Approfondendo il discorso con queste persone si arriva alla fine ad un vago “aò, io preferisco gli horror americani”, citando una listarella di film di almeno un ventennio prima.

Il resto sono quelli che sanno ma non ammettono, ossia giornalisti e accademici. Questi, dall’alto della propria posizione non possono ammettere la loro poca cultura in questo campo né probabilmente hanno il tempo e la voglia di approfondirla. Quindi per non apparire incompetenti e perdere così il proprio altare culturale preferiscono tentare di delegittimare il prodotto in questione e renderlo vago e privo di interesse al fine di giustificare la loro voluta non applicazione ad esso. Ma questo è un vizietto losco proprio di tanta intellighenzia italica, nel tempo, nei generi e non solo nel cinema.

Invece no. Il fattore principale è che parallelamente alla maggiore produzione massiccia di horror (poi vedremo perché) c’è stata una maggiore capacità di fruizione delle opere. D’accordo, i giapponesi fanno un po’ a modo loro e non mettono praticamente mai sottotitoli in lingue anglofone nei DVD. Ma grazie ai loro film distribuiti ad Hong Kong (quindi con sottotitoli inglesi), a quelli arrivati in occidente in seguito ai remake e alla moda, grazie ai sempre più numerosi festival sempre più lungimiranti, alla condivisione via internet di files e soprattutto al lavoro dei fansubbers (ragazzi che conoscono la lingua e che traducono da soli i sottotitoli condividendoli poi gratuitamente con tutti tramite internet) c’è stata una grossa possibilità di vedere e toccare con mano gli stessi testi filmici. Lentamente poi il supporto di riviste sempre più (obbligatoriamente) aperte (pensiamo ai dossier di Nocturno o al bel numero fuori serie di Mad Movies), e la pubblicazione di libri dedicati (uno dei cataloghi dell’edizione 2005 di Sitges era un dizionario sull’horror asiatico dal 1995 al 2005) hanno permesso uno studio e un confronto tra studiosi e appassionati. Insomma, l’horror asiatico ha bisogno di ricerca e di attenzione e più di prima necessita di uno studio maggiore e certosina applicazione, per dribblare i logici cloni, plagi, le minestre riscaldate e trovare quello che c’è di buono; e vi assicuriamo che c’è.

Ma vediamo cosa succede da quelle parti.
Il quartier generale del genere rimane sempre il Giappone che da solo può riuscire a soddisfare il bisogno pro capite di paura del globo. Non è un’onda solo cinematografica ma avvolge tutte le forme e tutti i media popolari. Numerosa è la produzione in video per la TV (anche Nakata e Shimizu si sono fatti lì le ossa), in forma di corti, medi e lungometraggi a differenze di budget, spesso prodotti e poi raccolti in compilation e DVD antologia (come Tales of Terror). Oggigiorno il mercato video giapponese è molto avanzato ed è continua fonte di ispirazione per le successive proposizioni tecnologiche e strategie di diffusione in occidente. Non è evento né caso limite la produzione di mini horror solo per la messa in onda via cellulari e via internet. Parallelamente funziona bene anche l’horror animato sia in forma intima, introspettiva, paranoico- sofisticato (alla Perfect Blue per intenderci e gli altri lavori limite di Satoshi Kon come Paranoia Agent) che nelle versioni estreme e TEENtacolari leggermente in calo (A Kite, Urotsukidoji, La Blue Girl) che in versione folkloristica e filologica alla Inuyasha come il recente Ayakashi (sceneggiato da Konaka Chiaki). I manga horror sono prodotti e consumati in massa proprio come la letteratura. Di tutta questa sterminata produzione (e non abbiamo ancora citato i film in sé) ben poco arriva in occidente spesso anche comprensibilmente; difficilmente prevedibile può essere la reazione di un lettore di un manga, nemmeno ero guru ma proprio porno splatter di Kondom (si, si chiama così), delle illustrazioni zoofile di Yugo Kurita, i deliri di Shintaro Kago (leggere Head Prolapse Elegy, storia di un racket della prostituzione gestito da delle arrapate Krasue), l’ultraviolenza di Uziga o il principino del lolicon hentai Hoshino Fuuta (censurato in Canada, roba da caccia alle streghe e moige in crisi epilettica). Anche a livello letterario siamo messi maluccio, le poche volte che arriva qualcosa è un telefono senza fili di traduzioni dall’inglese come per i romanzi della serie Ring; fortunatamente in Italia abbiamo la pubblicazione Alia che cerca di rimediare a queste carenze con puntuali traduzioni e adattamenti diretti. Tutti questi prodotti poi diventano una specie di labirinto e di frullatore intratestuale e multimediale (esempio base: il progetto Parasite Eve o il più recente Blood). Ecco quindi che dai romanzi nasce il manga, dal manga si ispira il videogioco che a sua volta è base per un film (e magari una serie TV) e logica serie a tirature più o meno limitate di action figures (sia Umezu che Hino hanno le loro inquietanti statuine a tema ad esempio). E proprio il videogioco è uno dei medium dove più di ogni altro l’orrore ha sperimentato nuove strade; dopo Resident Evil e Silent Hill nulla è stato più come prima. La moda, il commercio e il flusso straordinario di capitali in questo senso ha permesso anche una straordinaria libertà e possibilità di rischio ed espressione, basti pensare all’esistenza stessa di un lavoro straordinario e inspiegabile come Killer7, sorta di film di David Lynch filtrato da una sensibilità otaku e fruibile secondo nuovi e innovativi schemi di interazione. E a dimostrare l’eterno e continuo salto tra i media non si può non notare le somiglianza tra un videogioco come Project Zero e un film come Shutter. Ma come dimenticare lo straordinario Clock Tower 3, nobilizzato dalla suntuosa regia del maestro Fukasaku o decine di altri titoli dall’incredibile Second Sight a Forbidden Siren?

Sotto il livello epidermico giace tutto il marcio di una produzione sotterranea e foltissima, tutto ciò che può essere permesso dal V-cinema, sorta di produzione parallela e a basso budget per il solo mercato video. Qui c’è la possibilità di rendere in carne ed ossa gli estremi presenti in manga e serie animate; e quindi via al live de La Blue Girl e di Angel of Darkness e poi la “fica assassina” (Killer Pussy appunto) di Takao Nakano, papà di delizie del calibro di Exorsister e Playgirl. Ma si può sprofondare sempre di più, proprio come fa la protagonista di Muzan-E di Daisuke Yamanouchi, e approdare a finti snuff, parodie erotiche, finti harakiri, pornowrestling (esempio: Lady Karate Fighter VS Rape Maniacs), film sui suicidi, mostri di gomma, Sentai e via per questa strada. Riemergiamo e torniamo ai film. Dicevamo, in un anno Haze e Imprint. Certo, uno dei maestri del genere, Kiyoshi Kurosawa (Kairo, Cure), ha profondamente deluso con i suoi House of Bugs e, soprattutto Loft, ma ne viene prodotta di robina. La moda facilita la circolazione anche se spesso incita l’omologazione. Ecco che un uomo dotato come Shimizu continua a produrre Ju-On con una continuità allarmante ma dimostra, quando vuole, di essere capace anche di improvvise vette di originalità, da Marebito all’episodio divertentissimo e autocritico dell’opera collettiva Dark Tales of Japan fino alla sua Tomie. Ma non mancano i nomi; Shugo Fujii ad esempio ha trovato adepti grazie al suo terribile Living Hell e soprattutto al suo bel corto Dead Money. Uno “sconosciuto” Hideyuki Kobayashi ha partorito un altrettanto sconosciuto Marronnier, straordinario horror saturo di bambole e bambolotti (missione non riuscita all’orribile coreano Doll Master) assolutamente surreale e geniale, un capolavoro misconosciuto imprescindibilmente da riscoprire. Spesso è proprio in questi film a basso budget, spesso in video, che si trovano i gioiellini più riusciti e interessanti, come Cursed di Yoshihiro Hoshino o Tokyo Psycho di Ataru Oikawa. Ma i nomi sono tanti, più o meno noti, così come i film; Masayuki Ochiai (Infection, Hypnosis), Koji Shiraishi (Ju-rei), Norio Tsuruta (Ring 0, Premonition), Yoshihiro Nakamura, Joji Iida (Battle Heater, Another Heaven). Cosa dire di fronte ad un film così ricco e patinato, incomprensibile nella trama e furioso negli effetti speciali gore come EM/Embalming (dove tra le altre cose recita il veterano regista Seijun Suzuki)? Il film è inutile ma la sua esistenza fa riflettere. O il folle, ingestibile, Tokyo Zombie? E i film sui suicidi che vanno così bene dal già classico Suicide Club agli orribili Suicide Manual? E poi le serie che crescono da un paio di episodi (Shibuya Kaidan) fino a Tomie (che viaggia attualmente sui sette), All Night Long (cinque), Ring (tre o quattro o cinque a seconda di come la si voglia guardare), Ju-On (vedi speciale).
Per chiudere le tendine sulla zona mettiamo un nome che non fa mai male e che non andrebbe dimenticato, Miike Takashi, regista laterale ad ogni genere ma che ha messo la firma su alcuni degli “horror” più straordinari dell’ultimo ventennio.
E siamo solo in Giappone.

Al di fuori, come dicevano i Matia Bazar, “c’è tutto un mondo intorno”. In due paesi (Thailandia e Sud Corea) l’avvento del new horror ha corrisposto con la rinascita della stessa cinematografia locale. Ovvio quindi che l’horror sia stato uno dei generi più spinti in produzione, spesso con risultati del tutto inaspettati. La Corea del Sud si veste a nuovo ogni estate per proporre i suoi film di paura, non sempre tutti riusciti, non sempre tutti originali, ma spesso assolutamente rigeneranti. Non volendo fare rientrare nella categoria né lo straordinario Memories of Murder, né Happy End (ma c’è chi lo fa) alcuni dei film coreani più interessanti degli ultimi anni sono horror. Il principino del genere è probabilmente Memento Mori, vera pietra scagliata in piena new wave a fare bella mostra di sé di fianco ai prodotti nipponici. Ma un po’ tutta la serie di Whispering Corridors, nonostante catastrofiche cadute di originalità presenta alti momenti di interesse. Il 2006 è stato l’anno del monster movie di Bong Joon-ho presentato a Cannes, The Host e gli anni scorsi la Corea del Sud ha regalato altri titoli davvero niente male da The Wig che parte come la deriva della deriva dell’horror asiatico (una parrucca assassina!) e regala una partitura melodrammatica straordinaria, fino a R-Point eccellente e suggestivo melange di film bellico e horror d’atmosfera. C’è poi il caso clinico, Ahn Byeong-ki autore di un trittico (in parte giunto anche in Italia) estremamente terrificante ma di utilità quasi nulla, ossia Nightmare, Phone e Bushinsaba. Il regista ha uno straordinario talento nella messa in scena e nell’evocazione del terrore ma pecca di poca originalità ed interesse del soggetto. Ai tre titoli già citati si è appena aggiunto il suo nuovo A.P.T., scombinato, ma due spanne sopra gli altri suoi titoli, rabbioso, spietato, originale, con vette di genialità; un buon film, finalmente. Ma non basta. Per molti prodotti medi assolutamente orribili (The Record, Doll Master, Bloody Beach…) ci sono altrettanti titoli medi interessanti che se non cambiano la storia del genere si propongono però come valide alternative; da Antartic Journal, Sorum, The Soul Guardians, To Catch a Virgin Ghost fino a The Uninvited. Altri due film vanno ricordati, il primo, l’inspiegabile, criptico slasher ultragore Tell Me Something, l’altro The Ring: Virus, versione del romanzo ormai classico, molto fedele e riuscita come l’originale giapponese. Infine va citato il nome di Kim Jee-woon (A Bittersweet Life) che nella prima parte della propria carriera tanto ha dato al genere, dall’esordio The Quiet Family, all’episodio breve del film collettivo Three (ma non dimentichiamo lo strampalato Cut di Park Chan-wook contenuto invece in Three…Extremes) fino all’ormai noto A Tale of Two Sisters.

Più complessa è la situazione in Thailandia che fatica sempre un po’ a prendersi sul serio e che quindi spesso ha regalato straordinarie commistioni del tutto inedite tra orrore e commedia. E’ questo il caso di follie del calibro di Sars Wars (surreale film di zombie al neon), della trilogia di Buppha Rathree, fino a Body Jumper e Headless Hero. Il meglio di sé la Thailandia lo regala quando si ancora al proprio nazionalismo, al folklore e alla cultura più superstiziosa; in questi casi anche in film poco riusciti riesce a turbare. Ecco allora che anche schifezze come Seven Day in a Coffin contengono sequenze inimmaginabili, come un uomo che si va ad accoppiare con un cadavere nella bara esposta al tempio o in Macabre Case of Prom Pi Lam dove dopo un’ora e mezza di indagini sulla morte violenta di una ragazza si viene a scoprire che era stata violentata da tutti gli uomini del villaggio, nessuno escluso. Il cinema thailandese non ci va leggero in questo e raggiunge forse il climax del malessere nell’intenso e durissimo Zee-Oui dove sia i cinesi, che i giapponesi che gli stessi thailandesi vengono descritti come bestie sanguinarie prive di ogni umanità, sfruttatori, assassini e divoratori di bambini macellati.
Il cinema thailandese è molto legato all’horror e la produzione negli ultimi anni è stata davvero massiccia; uno dei film che ha rappresentato la rinascita del cinema nazionale è stato proprio il bel Nang Nak, lugubre storia di fantasmi in stile Storia di Fantasmi Cinesi tratto da una leggenda popolare famosissima portata poi sullo schermo anche quest’anno nel gradevole Ghost of Mae Nak. Poi ovviamente ci sono i film “fedeli alla linea”, quelli che vengono puntualmente esportati in occidente e si prestano totalmente all’evocazione dello stereotipo alla base di questo articolo. Ma possibile che il pubblico non sia capace di distinguere un plagio (oltretutto orribile) di Ju-On come The Sister da un film che invece propone elementi personali solo facenti parte di uno stesso immaginario come Shutter? Qui si tratta quasi di cecità. I thailandesi poi sono ormai noti per non andarci tanto leggeri con il sangue; se già il primo, brutto, Art of the Devil sorprendeva per gli eccessi gore, il sequel è quasi insostenibile fin dai poster promozionali estremamente espliciti. Ma scene del genere appaiono improvvise anche in film apparentemente moderati (in Ghost of Mae Nak ad esempio c’è un bel dettaglio di un uomo sezionato in due da una lastra di vetro caduta dal cielo). Di film orribili ovviamente ce ne sono e tanti (esempio: 999-9999: Dream or Death), ma la varietà del resto è di una freschezza entusiasmante: Dal kaiju locale Garuda, allo scontro tra stregoni in chiave horror virata dal 3D di Necromancer, fino ai film, come anticipato, più legati alla mitologia e al folklore locale rappresentati da coccodrilli giganti assassini e cavalieri senza testa; numerosi gli esempi da The Wheels, il criticatissimo episodio di Nonzee Nimibutr appartenente al film collettivo Three al pittoresco Krasue, creatura mitologica rappresentata da una testa femminile volante con appesi alla base del collo gli organi interni ballonzolanti, presente sia nel film omonimo che nel recente Ghost of Valentine di Yuthlert Sippapak. Proprio lui è uno dei nomi fondamentali della scena horror locale, con il film appena citato e il precedente Buppha Rathree. Noti invece ormai a livello mondiale sono i Pang Brothers con la loro trilogia di The Eye e diversi prodotti in tema (Ab-normal Beauty…), coerenti, sofisticati e perfettamente in linea con le loro produzioni patinate e suntuose.
Giungiamo tristemente ad Hong Kong dove un tempo, quando era in atto un metodo diverso di fare cinema, l’horror era vitale e straordinariamente “altro” da ogni oggetto filmico presente sulla faccia della terra. Dopo il 1997 per il genere è stata dura. Senza potere andare troppo indietro nel tempo (ai fini dell’analisi) rimangono poche cose da evidenziare.

I prodotti migliori e più riusciti, assolutamente competitivi e importanti nella storia del genere, sono i mediometraggi (e le loro rispettive versioni lunghe) presenti nei due film collettivi Three e Three…Extremes, rispettivamente Going Home di Peter Chan e Dumplings di Fruit Chan. Parallelamente a questi film, cercando di dribblare l’estenuante serie di Troublesome Night, brutta già dal primo episodio e ormai prossima al ventesimo (!!!), c’è stata l’opera sperimentale di Soi Cheang. Se i germi di quello che sarebbe arrivato erano già nell’intenso e curioso Diamond Hill, il colpo deflagra con Horror Hotline…The Big Head Monster confuso sviluppo dalle fughe alla Blair Witch Project con il merito di procurare della reale paura nello spettatore. Il colpo successivo è il terrorizzante New Blood dove in controtendenza alla presenza di fantasmi dai lunghi capelli corvini il regista infila una fantasmessa totalmente rasata. Dopo l’ibrido e poco riuscito The Death Curse l’ultima sorpresa è il criticato Home Sweet Home, horror di facciata pronto a mascherare un dramma della disperazione materna assolutamente coraggioso e ennesima prova di straordinario talento registico, sorprendente nella gestione ed esplorazione degli spazi urbani. Un gradino più in basso c’è il dittico di Law Chi-leung, ossia Inner Senses e Koma, leggermente più riuscito il primo, duro da visionare il secondo, assolutamente abborracciato nonostante il talento precedentemente dimostrato dal regista in film come Doppio Tiro (Double Tap). E poi? Cosa resta? Poco a dire il vero. Tanti orribili plagi (questi si e va ammesso) dei vari Ring, a partire dalla seriaccia Wicked Ghost fino a Sleeping with the Dead, The House (plagio asettico di ogni horror esistente), “cose” orribili come X-Imp (da non confondere con i vari altri Imp), le “cose” di Tony Leung Hung-wah come Demoniac Flash o quelle di Wellson Chin e Herman Yau. Ogni tanto qualcosa di piccolo e trascurabile, ma almeno curioso o particolare appare, come il 3D pittoresco di The Snake Charmer, le indigestioni di Human Pork Chop, il geniale The Stewardess di Sam Leong, l’autrice a confronto con l’horror in Visibile Secret, le cazzatine di Slim till Dead e qualche altro raro sussulto.
No, non basta, l’Asia è molto più ampia di quanto possa sembrare e così il suo cinema.

Le Filippine nonostante la crisi che avanza tentano anche loro la strada della paura spesso con esiti decisamente interessanti. Il successo straordinario del film nazionale Feng Shui di Chito S. Rono ha aperto la strada al genere ma ha anche soffocato prodotti meno competitivi sia nell’evocazione dell’orrore stereotipato del prototipo che nel budget investito, come l’interessante e limaccioso Pa-Siyam di Erik Matti. Intorno a questo viaggia un microuniverso da esplorare e tutto in sviluppo, spesso virato da dosi di ironia in salsa rosa; è il caso della sensuale e prosperosa serial killer del film Keka (Quark Henares) o della commedia/action/horror di fantasmi di Joyce Bernal, D’Anothers. Il regista Rico Maria Ilarde, già autore del cult Woman of Mud, quest’anno ha proposto al Far East Film Festival due lavori in video, uno breve e poco intrigante, Aquarium, un altro, Beneath the Cogon, ambiziosa produzione pulp horror a bassissimo budget e diretta in digitale, che dimostra che se il talento c’è emerge prepotentemente anche senza un budget adeguato. Il film ha tutti i pezzi a posto e risulta piacevole e suggestivo.

Il cinema cinese con l’allentarsi delle maglie della censura riesce sempre più a portare a galla anche a livello mainstream le proprie paure dirigendo un film suntuoso e intenso come Suffocation. E’ ormai preventivato, e se ne hanno le prove reali, che lo sviluppo ormai imminente del cinema nazionale sarà esplosivo e quindi resta solo da osservare la strada che verrà presa dai generi.

Le altre nazioni ci provano comunque. La Malesia dopo aver tentato (con successo) la strada del wuxia con il colossal Puteri Gunung Ledang (presente alla 61esima Edizione della Mostra Internazionale di Arte Cinematografica di Venezia) tenta il bis con un horror, Pontianak senza riuscire però nell’impresa di bissare il successo del precedente film.

Ci riesce invece Taiwan che cerca sempre di più di slegarsi, liberarsi dal pesante fardello e creare un’alternativa commerciale ai due noti autori locali. Il super horror di quest’anno è The Heirloom del giovane Leste Chen, apparentemente poco originale ma assolutamente riuscito, competitivo e intrigante nel mettere in scena una terribile leggenda folkloristica già proposta in altri film asiatici. Se il ritmo è a tratti altalenante il film è solenne e suntuoso nell’estetica e nella messa in scena arrivando a regalare alcune sequenze assolutamente riuscite.

I capitali singaporesi sono convogliati nella ghost story The Maid mentre l’India, industria iperproduttiva e quasi impossibile da monitorare adeguatamente, tra originali (l’interessante Bhoot di Ram Gopal Varma) e plagi (da Bollywood anche un vistoso clone di The Eye) porta continua linfa al genere regalando talvolta anche oggetti assurdi non identificati come il contenitore/frullatore stracult intitolato Jaani Dushman.

Se sembra ormai appurata la vitalità di ogni singola nazione spesso si raggiungono risultati eccellenti quando queste uniscono le forze per co-produzioni o film collettivi come Three, Three…Extremes o Dark Night.

Dopo questa breve panoramica troviamo davvero difficile continuare a parlare di morte di un genere, ma per gli irriducibili ritorniamo alla provocazione iniziale; in quale paese del mondo in un solo anno sono usciti due lavori rivoluzionari come Imprint di Miike Takashi e Haze di Tsukamoto Shinya?

 

Postilla: All’interno del forum di Asian Feast, sempre vitale e stimolante, si rifletteva su categorie, tempi, caratteristiche del genere. Effettivamente se in parte la base dell’articolo è sul new horror è vero che poi esula mostrando un passaggio temporale ormai evidente. Per new horror (o new J-horror) intendiamo i film prodotti da circa metà degli anni ’90 e che partono da una base composta da titoli come Ring, Kairo, Cure, Perfect Blue e videogiochi come Silent Hill, prodotti che reinventano in toto la metodologia dell’orrore: pochi effetti speciali e poco sangue, alta atmosfera, maggiore realismo, silenzi e rumori avvitati e/o industriali al posto delle classiche partiture orchestrali assordanti, spiccato senso del melodramma. Prima c’era stata negli ’80 (parlando soprattutto di Giappone) una lunga serie di prodotti più goffi e ludici, spesso allietati da creature più gommose ed esplicite (Word Apartment Horror, Sweet Home, Battle Heater..), tutto il filone TEENtacolare alla Urotsukidoji, e gli estremi alla Guinea Pig. Il genere TEENtacolare si è eclissato negli ultimi anni (tranne che nel porno tout court), ed era un fiorente filone figlio al contempo sia di film come Possession di Zulawski che di origine pittorica (pensiamo solo al classico di Hokusai Il Sogno della Moglie del Pescatore). In questi prodotti, soprattutto d’animazione (Urotsukidoji, La Blue Girl, High School Invasion, Angel of Darkness…) grotteschi mostri tentacolari abusavano sessualmente di innocenti scolarette nipponiche. Se anche il genere sembra essersi quasi spento, l’immaginario da esso generato è ormai ancorato nella sottocultura locale. Sia un tentacolo o un altro oggetto, le reazioni fisiche e le deformazioni dei corpi delle fanciulle abusate –specie se animate- rispondono ormai sempre a anomale e irreali leggi della fisica, particolarmente ancorate ad un gusto del “kawai”, composto da curve tondeggianti, sacche morbide di carne ondeggiante e maniacalità nella realizzazione grafica di liquidi vari.

Al contempo il cinema più estremo e gore continua a fluire sommesso sia nelle forme più brutali e indie del v-cinema che –tornato a nuova vita- nei prodotti mainstream di registi che fanno del sangue arte (come un Miike Takashi ad esempio).
La cosa da sottolineare è come l’avvento del new horror abbia sia ristabilito leggi, modi, immaginari e stili, ma al contempo aperto strade impensabili e rivoluzionarie anche all’horror tout court non direttamente riconducibile a quello stile. Quindi se il boom è stato quello dei film di fantasmi femminili si sono poi spalancate le porte ad altre infinite possibilità di offerta di paura e orrore. Incredibile a dirsi è l’estrema originalità –pari a quella dei film di fantasmesse- delle altre fasce di prodotti del genere, dai film di zombie alla Stacy, ai bambolotti assassini di Marronnier fino al racconto bellico coreano R-Point.

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Si ringraziano tutti gli utenti del forum di AsianFeast.org che hanno collaborato alla ricerca del materiale iconografico e Massimo Soumarè per la consulenza storica ed iconografica sui fantasmi giapponesi

 

 

Horror al cinema

 

Immagini Tradizionali, dal XVII al XX secolo, di Yurei: donne fantasma giapponesi

 

Classici degli anni '50 e '60

 

Animazione, manga e computer graphics: l'altra faccia dell'horror asiatico