100 Monsters

Voto dell'autore: 4/5

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Yokai Hyaku Monogatari è ormai un film assurto a leggenda, proprio come i due successivi capitoli della saga (Yokai Daisenso e Tokaido Abaketo Chu); e dire che fino a pochi anni fà erano delle gemme misconosciute, almeno stando al pionieristico testo Fant’Asia di Esposito/Della Mora/Monteleone: “questo singolare dittico prodotto dalla Daiei alla fine degli anni ’60 è praticamente sconosciuto in Occidente a parte qualche breve citazione in fanzine, dove perlopiù si tira a casaccio indicando credits e trama, copiate da qualche pressbook!”. E spesso il film è stato trattato e proposto in modalità scorretta, dando poca giustizia al film e focalizzando l’attenzione sul solo fattore “mostri”. In realtà le creature fanno solo delle brevi e sporadiche apparizioni durante il film, salvo trattenersi per poi rivelarsi in massa nell’evocativa e stupefacente parte finale. Non fosse per la loro presenza il film sarebbe un classico jidaigeki, in cui un signorotto avaro e violento impone la costruzione di un bordello in una zona poco consona, evidente metafora della deriva sociale del Giappone degli anni 60, (s)venduto al capitalismo più sfrenato.

E invece su questa base realista si infilano di volta in volta delle brevi schegge che hanno come protagonista una o più creature fantastiche della mitologia giapponese. Alla fine la fruizione del film è simile all’accadimento iniziale narrato in esso ed è quella di ascoltare delle storie di paura intorno ad un fuoco o meglio al lume delle candele o delle lanterne (la tradizione dello Hyaku Monogatari). Se il soggetto iniziale è ispirato alle raccolte di Sekien Toriyama (le serie Hyakki Yagyō), cantore delle creature del folklore locale, a livello pittorico molteplici sono le fonti di ispirazione tra le quali non si possono non ammettere quelle delle pitture di Katsushika Hokusai, per citare un nome noto anche in occidente. Per farsi un’idea delle creature che popolano il film si può anche sfogliare un recente libro illustrato edito da Kappa Edizioni, Enciclopedia dei Mostri Giapponesi (di Shigeru Mizuki, uno che più di altri ne ha codificato l’aspetto e il design) all’interno del quale si possono trovare molte delle creature che affollano il film. C’è l’Abura-sumashi, che ricorda un monaco con la grossa testa, la Chochin Oiwa, la lanterna volante posseduta, il Kasabake un ombrello saltellante monocolo, dotato di una lunga lingua e una gamba (chiamato Honekara Kasa, ombrello d’ossa, nel Hyakki yagyo di Sekien Toriyama), lo Tsuchikorobi e poi volpi, tanuki e chi più ne ha più ne metta. Talvolta tutto l’armamentario di pupazzoni di gomma e pelo ricorda un pò il Muppet Show di Jim Henson ma la differenza -evidente- è nella sostanza favolistica (folkloristica) e spesso violenta della storia.

La ricostruzione degli esterni in studio e una fotografia violentemente colorata donano al film un’aspetto suggestivo. Ottima la cura delle scenografie e i trucchi per la messa in scena del meraviglioso con particolare nota di qualità per la Rukurukubi, una donna il cui collo si allunga a dismisura. Un film che ha fatto storia tant’è che è stato poi omaggiato in alcune sequenze del bel Sakuya – The Demon Slayer di Tomoo Haraguchi mentre viene aggiornato con straordinaria efficacia nella nuova versione ad opera di Takashi Miike, The Great Yokai War. E il finale celebrativo in cui tutti i mostri in marcia verso il sol dell’avvenire danzano e ballano emoziona come il finale di Miracolo a Milano di De Sica, in cui i barboni volano in sella a delle scope.

Yokai nell’iconografia più o meno classica