A Mad World of Fools

Voto dell'autore: 3/5

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A Mad World of FoolsDavid Chiang, chi? Lo spadaccino monco? L’eterno compagno di sangue di Ti Lung, invincibile guerriero forgiato nel ferro e sacrificato nella polvere della battaglia? L’eroe romantico e morale? Il David Chiang anche noto come John Chiang? Si, proprio lui, il comico.
A Mad World of Fools è una regia del nostro David Chiang, prodotta in pompa magna dal maestro Chang Cheh e straordinariamente sorprendente per il fatto di essere null’altro che una commedia a episodi. Dieci storie che vanno a sondare vizi e virtù della popolazione hongkonghese, con sguardo antropologico e cinico, mostrando la visione capitalista ed arrivista della popolazione, il vizio per il gioco, la dipendenza televisiva, giostrando perennemente un’ironia a sfondo sessuale e concedendosi con indifferenza una lunga sfilza di nudi femminili e battute grossolane sull’omosessualità. Il regista si concede anche il ruolo del protagonista in due degli episodi messi in scena [oltre ad essere uomo narratore tra un episodio e l’altro], l’ultimo, il più lungo, in cui interpreta un ricco cleptomane e uno dei primi, forse il più divertente, in cui giunge a mettere in gioco il proprio ruolo stereotipato di campione di arti marziali: nella solitudine della propria camera tappezzata di poster di eroi dei film di kung-fu, Chiang si addormenta leggendo un romanzo a tema. Nel sogno “decolorato” lo vediamo passeggiare con la propria partner e darle continue prove delle proprie abilità atletiche fino a sgominare un intero gruppo di maleintenzionati (utilizzando anche delle letali foglie lanciate in stile arma ninja). Al risveglio, tornato il colore, lo spettatore fruisce di nuovo della sequenza onirica appena vista, ma in questa realtà le prodezze dell’eroe sono destinate a fallire.

Un pò Ridere per Ridere di John Landis, un pò Il Circo Volante dei Monty Python, un pò commedia scollacciata italiana alla W la Foca di Nando Cicero, l’ironia viaggia grassissima e non sempre con esiti coinvolgenti. Certo bisogna anche ammettere che in un cinema dotato di produzione e fruizione vorace e onnivora come quello di Hong Kong spesso ci vuole ben poco a raggiungere la data di scadenza di un film, soprattutto se vengono sezionati gli aspetti più sfuggevoli e in continua evoluzione come i costumi sessuali o le abitudini sociali. Insomma, il film è invecchiato (male). Resta però uno straordinario esempio di sperimentazione tecnica. Chiang gestisce i tempi comici (e non solo quelli) a modo tutto suo (non si capisce se volontariamente o no), ne è una prova la estenuante sequenza iniziale che, finalizzata alla battuta contiene una sottobattuta sul risparmio energetico. Bellissimo il finale sviluppato in un lungo inseguimento all’interno di un cimitero con sottofondo di musica “lounge”. E la stessa regia, forzando gli zoom, capovolgendo la macchina da presa, azzardandone le posizioni, crea una visione filmica inedita che talvolta può ricordare gli esperimenti folli di Wai Ka-fai (Fantasia, 2004) nel campo della commedia. Allietano il film un esercito di attori, comparse e caratteristi pressoché infinito, da un giovanissimo Dean Shek (A Better Tomorrow II, 1987) ladro di indumenti intimi, ad un altrettanto giovane Hui Shiu-hung (Breaking News, 2004) a un Wu Ma (A Chinese Ghost Story, 1987) esibizionista.