Blind Beast vs Killer Dwarf

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Blind Beast vs Killer DwarfApprocciarsi ad un film come Blind Beast vs Killer Dwarf è abbastanza difficile. Sono infatti troppi gli stimoli che spingono ad andare oltre la pura e semplice visione. In principio si pensa che il regista è quello stesso Ishii Teruo autore di opere radicali e rivoluzionarie per l’immaginario cinematografico nipponico, per citarne qualcuna L'Orrore degli Uomini Deformi, Blind Woman’s Curse e Inferno of Torture.  A questo si aggiunga che si tratta proprio del suo ultimo parto cinematografico e che, non pago di aver già riproposto due anni prima una sua lettura del classico Jigoku di Nagakawa Nobuo degli anni ’60, si addentra ancora una volta nella proposizione di materiale del celebre Edogawa Rampo come avvenuto nel già citato capolavoro Horrors of Malformed Men.

Il gioco di specchi con relativi riflessi però non si conclude qua, perché la scelta per il nuovo soggetto tratto da Rampo Edogawa cade sulla belva cieca protagonista di uno dei suoi racconti più noti (Moju) e Blind beast è proprio il titolo anglofono usato per l’altro notevole adattamento degli anni ’60 diretto da Masumura Yasuzo. Per questo il dubbio sulle intenzioni di Ishii è lecito. L’ipotesi meno probabile è che volesse omaggiare il classico di Masumura vista la distanza tra le storie, così come sembra un po’ lontano dall’essere un tentativo artistico di seminare qualcosa di nuovo sul fertile terreno offerto dal personaggio di Edogawa.

L’ingombrante presenza del nano assassino, visibile sin dal titolo, come nuovo comprimario delle gesta della belva cieca spinge decisamente verso territori più radicali, meno letterari e probabilmente più congeniali al regista che allo scrittore. Il parallelo però è comunque possibile, perché da una parte si ha l’Edgar Allan Poe nipponico, il cui nome era proprio un tentativo di rendere la pronuncia nipponica del maestro americano, e dall’altra il padre putativo della moderna exploitation giapponese. Probabilmente talmente importanti quanto complementari per la definizione degli stilemi di certo cinema, così come ricettivi e pronti alla ri-elaborazione di diversi modelli ispiratori. Non è mistero che Moju fosse ispirato da un racconto di Edgar Wallace (The Dark Eyes of London) da cui son stati tratti due film occidentali, l’americano ed omonimo Dark Eyes of London del 1939 e il tedesco Dead Eyes of London del 1961, mentre non è difficile immaginare che il nano possa essere ispirato da vari assassini con ridotta statura del cinema occidentale (Phenomena, A Venezia… Un Dicembre rosso shocking o finanche The Sinful Dwarf).

A vegliare su tutto ciò poi ci pensano quel genio, che non ha bisogno di presentazioni, di Tsukamoto Shinya che interpreta uno dei due protagonisti nello stesso anno in cui interpretava il fortunato ruolo in uno dei migliori film di Miike (Ichi the killer) e anche le comparsate speciali di due registi culto come Sono Sion (Suicide Club, Love Exposure, Cold Fish) e Nakano Takao (Killer Pussy). Una tremenda girandola di nomi insomma che rischia di far dimenticare il film. E si potrebbe aggiungere fortunatamente in questo caso. La pellicola è infatti di una povertà quasi imbarazzante con location spoglie e fallimentari tentativi di farli sembrare visionari e surreali con intervento praticamente nullo di un ancora poco noto Nishimura Yoshihiro agli effetti speciali. In tutto questo non gli rende un buon servizio il digitale e l’insolito formato di ripresa scelto (1.37:1) che è poco più esteso di un televisivo 4:3. Non riesce inoltre a prendere una decisione qualsiasi sulla direzione da seguire fallendo decisamente anche nell’obiettivo preposto dal titolo ovvero l’incontro epocale tra i due maniaci. Purtroppo c’è da dire che Ishii ci ha lasciato con un ultimo brutto film, ma con almeno la possibilità di far tante chiacchiere sulla macchina cinema ed è per questo che lo si ama.