Burst City

Voto dell'autore: 4/5
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E’ realmente arduo parlare di questo film, difficile comporne un’analisi organica e dotata di un minimo senso.
Innanzi tutto Burst City non è un film, è un non-film e visto in questo modo l’approccio guadagna già di suo una parvenza di semplicità di discernimento. Si potrebbe obiettare che quello di considerarlo un non-film è solo una scappatoia, che comunque esso raccoglie una forma di narrazione inorganica ma la sostanza è quella del film. Vero anche questo. La definizione forse più calzante è quella che può definire Burst City, fisicamente come un contenitore e emotivamente come un’esperienza estrema (emotività che poi si riflette anche sulla percezione e i riflessi percettivi vista l’entità semi lisergica del prodotto). Contenitore dicevamo, una gigantesca scatola in cui sono racchiusi e mescolati brandelli di pellicola, sequenze, scene, videoclip, luci, essenza punk e rock’n’roll, motociclisti, corse automobilistiche, sbirri violenti e generazioni di mutanti; la città esplosiva che racchiude tutto questo è la scatola e sue sezioni e macerie fanno parte anche del contenuto. Tentare di riassumerne una sinossi è assurdo come anche il parlare di un film corale ha un valore semantico poco pertinente.
Si può parlare di stile, bruciante, frenetico, fiammeggiante, istintivo, e di scene giustapposte alla rinfusa. Il film inizia con una sequenza fatta di auto e moto, poi inserisce due live di gruppi rock, mostrando una popolazione di spettatori fellinianamente deformi e urlanti, e dalle cui bocche spesso non escono nemmeno parole ma solo grugniti (quasi dei figli bastardi dei boss yakuza di Fukasaku). E poi c’è l’ultima mezz’ora, un vero tour de force visivo fatto di scontri tra rockers, mutanti, uomini violenti e barbaramente armati e vestiti alla Mad Max, punk e forze di polizia in tenuta antisommossa, cantanti che lanciano dal palco teste di maiale contro gli sbirri, piatti della batteria che sfrecciano per decapitare gente, decine di sequenze talmente frenetiche e mosse e/o sfocate e/o sovra/sottoesposte da sfiorare (e raggiungere) l’impercettibilità visiva.
Un puro film punk, sperimentale oltre il verosimile, un film culto che mai si sarebbe potuto fare se non in quel momento e solo in Giappone. Se solo questo film fosse sbarcato in occidente al momento giusto o adocchiato da Ghezzi un attimo prima, oggi al posto di Tsukamoto dedicheremmo saggi e scritti a Sogo Ishii; il debito di Tsukamoto a questo regista è infatti più che evidente senza nulla togliere al magistrale regista di Tetsuo.
C’è anche da dire che a seconda di come lo si guardi il film può anche apparire estenuante e alquanto noioso (due ore nette) e probabilmente soffre di un certo provincialismo vista l’immediatezza di fruizione di un prodotto del genere che è destinato, come il 90% dei videoclip, ad avere una breve vita culturale. In questo caso si può invece prendere atto dell’immenso valore del film come documento; infatti anche se non ha nulla delle modalità produttive di un documentario è comunque un immenso documento, composto di materiale “forte” atto ad illustrare, trasfigurando e filtrando, un periodo e una forma sociale ben codificata.
Sicuramente si aggiudica numerosi meriti, quello di essere uno dei film più sperimentali della storia e di essere un film libero e profondamente sovversivo. Un film culto allora come può esserlo, magari per motivi diversi, oggi. Un altro colpo violentissimo all’interno di una carriera cinematografica composta di continui gioielli, da un regista mai sazio di sperimentare.