CJ7

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CJ7Il nuovo corso del cinema di Stephen Chow, quello legato alle regie, è un cinema che si autorigenera e si auto[ri]produce; è una lista di elementi e segni che si rimescolano e ripropongono generando ad ogni combinazione un nuovo senso e nuovi segni. E’ si, un cinema citazionista, ma ne è al contempo –nel senso- l’esatto contrario; se il citazionismo riproduce segni esterni, il nuovo cinema di Chow li produce e mescola con un risultato finale pari ad un grafo ad albero rovesciato, simile ad un processo imperfetto di scissione cellulare.

Questa ideale terza parte di un’attuale trilogia della povertà si svolge in una continuità perfetta con i due precedenti film, quasi un sequel di Kung Fu Hustle di ambientazione moderna. Tanto si presenta però una continuità tanto il processo di autoannientamento è per certi versi vicino a quello della trilogia dell’autodistruzione intrapresa da Kitano, certo, in modalità meno drastica. Dopo trent’anni di carriera e una ventina di moiletau (il senso “nonsense” di comicità dell’attore) il mondo è cambiato, la commedia è cambiata, Hong Kong è cambiata e Chow è cambiato. Si è fatto fisicamente più da parte curando sempre di più la partitura prettamente cinematografica dei film, ma togliendo la sua ingombrante presenza per rifletterla su tutti gli altri attori. E’ stato [super]eroe tra tanti in Shaolin Soccer, prescelto sacrale in Kung Fu Hustle ed ora elimina ogni eroismo se non quello derivante dalla responsabilità paterna di un uomo povero che vorrebbe per il figlio un mondo migliore e diverso dal suo. Dei tre film resta solamente il contesto miserevole dei protagonisti e un moto di ricerca di uscita linda.

Non sorprende quindi che un cinema autoripetente e perfettamente riconoscibile si rifletta in continuazione e rimescoli sensi e simboli noti; Chow diviene il bambino protagonista (anzi, l’attrice è una bambina) che recita esattamente ed è diretta magistralmente come l’attore/regista, mentre il bambino boss cattivo è una summa di tanti personaggi e gesti provenienti dagli altri suoi film, primo fra tutti il Feng Xiaogang/boss della Crocrodile Gang di Kung Fu Hustle. Ma anche gli scambi così diversi tra Chow ed uno spiazzante Lam Tze-chung rimanda ai duetti per le strade di Shanghai del precedente film.

Di nuovo utilizza i piedi e le scarpe come elementi descrittivi del passaggio da povertà a ricchezza; lo aveva già fatto in Shaolin Soccer, quando la continuità spaziale tra la zona ricca e quella povera della città era stata mostrata con efficacia da inquadrature di scarpe sempre più rozze. E ritorna la stessa trovata anche qua, a inizio film. Ma non basta; in una sequenza onirica riesce a fare citare Bruce Lee (menzionato probabilmente in TUTTI i suoi film) all’alieno CJ7 e fa ripetere alla piccola protagonista tutta la sequenza finale della palma radiante che piove dal cielo di Kung Fu Hustle (con tanto di saltello sul dorso di un’aquila) con in cielo, al posto del profilo del Buddah fatto di nuvole, quello del piccolo extraterrestre. A rafforzare la foga di automescolamento visivo, la presenza del lecca lecca del precedente film che sbuca fuori inaspettatamente e le musiche della Axe Gang, sempre provenienti da Kung Fu Hustle. La scelta sonora fa invece parte di tutta una serie di piccole rivoluzioni interne che esplodono in quest’opera; fa strano infatti ascoltare pezzi dei Gazebo (I Like Chopin) o dei Boney M calzare a pennello durante la visione. Altri elementi su cui focalizzarsi è il forte cambiamento della figura della donna nella poetica del regista; nei suoi ultimi 10 film più importanti, ossia negli ultimi 15 anni di storia, ogni nuovo titolo era stato veicolo per un’attrice poi divenuta star assoluta all’interno del cinema di Hong Kong. Figure complesse, sempre in bilico tra forza interiore e candore virgineo (tant’è che anche contrattualmente Chow imponeva comportamenti idonei al personaggio anche al di fuori del set e per periodi abbastanza lunghi). Stavolta il personaggio femminile è una figura del tutto eterea, non centrale e soprattutto distante; esemplare a questo proposito un dialogo con Chow attraverso un cancello della scuola proprio a sottolineare questa distanza sociale e fisica, quando nei film precedenti i due personaggi entravano sempre in collisione (la sequenza finale da contratto fa poco testo).
Infine l’abbandono della Centro Digital Pictures, azienda che aveva curato il 3D sia di Kung Fu Hustle che di Shaolin Soccer (e di Kill Bill, Storm Raiders…) per passare alla Menfond (Legend of Zu). Il perché è misterioso ma probabilmente è derivante dalla complessa resa visiva che doveva possedere l’irresistibile alieno, una fusione riuscita e folle tra E.T., Flubber, Doraemon e Ultraman (il beep rosso che segnala il limite energetico della creatura) in forma canina; certo, di nuovo non ci troviamo di fronte ad un iperrealismo dell’effetto di stampo hollywoodiano ma dinanzi ad una visione mentale dello stesso, pop, palesemente artefatta da cui poi la mutazione finale in mascotte di pezza.

Il tutto atto alla creazione di un prodotto per ragazzi o adulti consapevoli e preparati, il che ha penalizzato il film privandolo del pubblico più euforico che attendeva o la comicità più grezza dell’attore o le sequenze telluriche che avevano caratterizzato la precedente opera. Invece CJ7 è uno spettacolo libero e finissimo, forse risaputo e meno originale di Kung Fu Hustle ma ugualmente refrigerante e strabordante classe.

Cos’altro? Il soggetto: Ti (Stephen Chow) è un uomo che lavora come muratore sulla cima di alcuni palazzoni in costruzione, vive solo con il figlio Dicky (Xu Jiao) in una casa semidistrutta impiegando tutti i propri guadagni per mantenere il ragazzino in una scuola lussuosa, sperando per lui un futuro più luminoso del proprio. Dicky è però vessato da chiunque, dagli spietati compagni di classe più simili a dei giovani gangster delle triadi che a studenti modello, dai docenti, addirittura dai cani randagi per strada. A capovolgere, non necessariamente in meglio, la vita della famiglia sarà l’avvento di CJ7, un piccolo alieno trovato da Ti nella spazzatura.

Il film sussegue e giustappone continue invenzioni e composizioni grammaticali inedite e finissime, risultando talvolta poco organico e leggermente gratuito e risaputo ma facendo del tutto annegare questi lievi difetti dietro alla mastodontica potenza espressiva del regista. Una irresistibile favola moderna, matura e di classe, ineditamente stratificata, assolutamente da vedere.