Cure

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CureUna serie di efferati omicidi, tante mani assassine, una sola mente.

L’agente di polizia Takabe (l’attore feticcio di Kurosawa, Yakusho Koji) tenta di risolvere, con l’aiuto di uno psicologo (la popstar Ujiki Tsuyoshi), un intricato caso di omicidi seriali effettuati non direttamente da un serial killer ma da diverse persone tutte incapaci di dichiarare un movente. E’ da subito chiaro agli inquirenti che esiste un legame in tutte queste tristi vicende.

La tormentata vita di Takabe, complicata dai gravi problemi psicologici della moglie, trova un ulteriore motivo di difficoltà nella conoscenza di Mamiya, il giovane ragazzo ritenuto colpevole della serie di omicidi poichè in grado di indurre le vittime, attraverso l’ipnosi, a queste efferate azioni. Quest’incontro produce esiti assolutamente non scontati ed ambivalenti e, in tipico stile J-horror, la fine del film non coincide con la fine del terrore.

La carriera registica di Kurosawa Kiyoshi (Kobe, 1955) presenta già decine di titoli all’attivo prima della realizzazione di questo film che riesce ad uscire dal circuito locale per affacciarsi alle platee internazionali. Il film, uscito lo stesso anno di Ring (Nakata Hideo, 1997), ottiene un buon successo nei vari festival in cui viene ospitato e, insieme al celebre film di Nakata, diviene utile punto di riferimento per una produzione nazionale che durante gli anni successivi si svilupperà secondo ciò che in occidente chiamiamo J-horror.

Utilizzo minimo di elementi gore (il disgusto affiora in non più di un paio di scene, peraltro molto crude), forte ambiguità e ricerca del terrore nei più reconditi luoghi della mente umana sono aspetti che caratterizzano il film per i quali la critica occidentale chiama spesso in causa, per certi versi a sproposito, il classico cinema di Jacques Tourneur ed il modello orrorifico che ne consegue, alternativo all’horror che ricerca la piena visibilità dell’orrore.

Salta sicuramente all’occhio il particolare stile registico (distante anni luce dall’estetica MTV di molto horror contemporaneo, per lo più americano): molto pulito, in cui dominano i lunghi piani sequenza ed in cui gli accostamenti di immagini avvengono senza l’utilizzo di artifici particolari (non troviamo morphing e nemmeno semplici dissolvenze). Ci troviamo davanti ad uno stile che può richiamare il documentario anche nella scelta degli ambienti. La periferia urbana è il luogo in cui risiede in pratica tutta l’opera di Kurosawa, distante dai luoghi centrali della città, come distanti sono gli elementi gore, sempre ai margini del suo lavoro. La rappresentazione dell’orrore in Cure, come nei suoi successivi lavori, ci è data allo stesso modo in cui si può rappresentare una qualsiasi azione domestica e ciò contraddistingue importanti momenti del cinema di Kurosawa. Questo modo di portare in scena la narrazione fa parte della tradizione del kaidan eiga dalla quale lo stesso Nakata trae ispirazione per parte della sua opera, riferendosi, lui, prevalentemente all’aspetto iconografico. In Cure l’omicidio di un poliziotto da parte di un collega vittima dell’ipnosi di Mamiya si compie allo stesso modo in cui avviene un semplice saluto ed il trasporto emotivo dell’assassino è pari a quello di un qualsiasi comportamento di routine.

Il commento musicale è al limite dell’impercettibile e gli ambienti scarni e freddi rispecchiano l’animo dei personaggi presenti in scena. Un vuoto esistenziale, rappresentativo di alcuni problematici aspetti sociali tipici di una realtà metropolitana costipata e asfittica. Una modalità tradizionale di rappresentazione interna alla cultura di questo paese, impostata su un particolare “segno” che un osservatore attento come Roland Barthes ha definito “vuoto e senza Dio”. In particolare il personaggio di Mamiya, nel suo essere vuoto per sua stessa ammissione, ci conduce ad un prototipo di terrore in cui la successione delle azioni è legata più a rapporti casuali che causali ed nel quale diviene difficile trarre una morale unilaterale. La ricerca della casualità, oltre che a livello narrativo, appartiene già a partire dalle prime opere di Kurosawa (The Guard from Underground, 1992) anche al lavoro sulla singola scena, nella quale è frequente il movimento di oggetti, in genere una caduta, non dovuto a motivi drammatici.

E’ da questo film che la carriera registica di Kurosawa Kiyoshi giunge ad un punto di svolta, al di là del quale il regista di Tokyo inizia un percorso che lo vede privilegiare il genere horror al quale offrirà prodotti enigmatici quali Charisma (1999), Pulse (2001) e Retribution (2006), fra i prodotti di maggior rilevanza per quanto riguarda l’intero J-horror.