Departures

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DeparturesOkuru in giapponese è un verbo che possiede diversi significati. Vuole dire ritardare, dare, donare, e anche spedire, mandare. E’ in quest’ultima accezione che lo troviamo usato nel titolo originale di questo film, tradotto in inglese con Departures, a sua volta in italiano Dipartite, termini che hanno a che vedere con la partenza e con la separazione. Il film di Takaki Yojir? ha conquistato, inaspettatamente l’Oscar come miglior film in lingua straniera, strappandolo a Waltz with Bashir, di Ari Folman, dato decisamente per favorito. Il film israeliano era di scottante attualità e impegno e in più avrebbe costituito un precedente, il primo film interamente d’animazione a ricevere un premio così prestigioso: ma il “piccolo” film di Takita, ha avuto la meglio, non senza polemiche. Film raffinato, commovente nel senso più pieno e migliore del termine, Departures ha convinto. Il racconto si apre immediatamente su un’esecuzione orchestrale del celebre Inno alla Gioia di Beethoven. Gli spettatori in sala sono pochi, nonostante la qualità del concerto, e subito la nostra attenzione si focalizza sul violoncellista, Kobayashi Daigo. L’orchestra viene sciolta, quella era stata l’ultima esibizione, e Daigo si ritrova senza lavoro e con un nuovo preziosissimo violoncello appena acquistato da pagare. Così decide, d’accordo con la dolce e bella moglie Mika, (Hirosue Ryoko) di vendere lo strumento e di cambiare vita, trasferendosi nella sua casa d’origine, nella provincia di Yamagata, nel cuore delle Alpi Giapponesi. Daigo è cresciuto lì, solo con la madre, che gestiva un locale. In cerca di un impiego, risponde all’annuncio di un’azienda non meglio specificata, Nk Agents. Scopre che si tratta di una ditta di n?kan, ossia preparazione, trucco e vestizione dei cadaveri per la cerimonia funebre. Al colloquio, egli conosce il padrone, Sasaki, uno strambo signore, già abbastanza anziano e che vive solo, che lo assume praticamente senza fargli domande, e la sua segretaria, una donna anche lei abbastanza eccentrica. Daigo si ritrova al suo primo incarico di fronte ai parenti del defunto senza praticamente avere nessuna idea di cosa dovrà effettivamente fare. La situazione è quantomeno tragi-comica, Daigo posa come modello di cadavere per un video in cui si mostrano le tecniche dell’attività di n?kan. La vera iniziazione arriva però, per lui, quando viene chiamato, assieme a Sasaki, per il rituale in casa di un defunto transessuale e quando dovrà ricomporre il corpo di una donna anziana ormai in decomposizione. Daigo viene messo a dura prova, ma impara anche quale profondo valore abbia la vita se posta direttamente a confronto con la morte. L’intensa scena d’intimità tra marito e moglie che segue lo sottolinea con grande forza, ma anche con umanità e partecipazione, senza alcun eccesso emotivo ingiustificato. Il compito dei n?kan, attraverso il loro gesti e le loro cure, è quello di aiutare non tanto chi è morto, ma chi rimane, ad accettare la scomparsa e la definitiva separazione dal defunto. Sasaki e Daigo riescono a far oltrepassare la soglia della vita ai morti con serenità e dignità, e a farli riconciliare con parenti e amici, con cui spesso, in vita, non hanno mai potuto dialogare realmente e da cui non sono mai riusciti a farsi comprendere fino in fondo. La morte appare in questo modo non più come una realtà terribile, come un addio irrevocabile, ma come semplicemente il passaggio a una nuova dimensione, concetto buddhista e cristiano, profondamente religioso. I sentimenti che prevalgono nei familiari sono gratitudine e riconoscenza verso i due officianti, ma chi pratica attività che implicano uno stretto contatto col corpo, la carne, i fluidi, è inevitabilmente ai margini della società, impuro. La cultura e la civiltà giapponese hanno per tradizione sempre disprezzato e lasciato da parte tutto ciò che ha a che fare con la morte, considerata un tabù, irrimediabilmente “sporca”. Quindi il mestiere di Daigo e Sasaki è disonorevole e anzi socialmente impresentabile. La moglie di Daigo, Mika, lo lascia, e persino un suo vecchio amico d’infanzia non vuole avere a che fare con lui. Ma per Daigo, la figura di Sasaki e della sua aiutante e il suo lavoro, sono come una parte mai esplorata prima di sé, sono la famiglia che non ha mai avuto e decide di restare. Se per Koreeda,in Wonderful Life, la morte era rappresentata da una soglia inondata di luce, per Takaki, la morte è una serie di atti, una cerimonia, che costituiscono un vero e proprio atto d’amore per il defunto e per chi deve superare la perdita. Mika comprenderà finalmente tutto questo vedendo il marito all’opera con il corpo della proprietaria dell’ultimo bagno pubblico della cittadina e madre del suo compagno di scuola e amico. Uno dei nodi irrisolti della personalità di Daigo è il rapporto conflittuale col padre, che lo ha abbandonato quando aveva appena sei anni, e che non ha mai più voluto rivedere. Il mestiere di Daigo è anche un modo per lui per riappropriarsi dei lineamenti e del volto e dei gesti legati a suo padre.

Okuribito mescola con armonia e sapienza scene dalla comicità amara e sequenze commoventi e toccanti, che non diventano mai stucchevolezza fine a se stessa. Anche stilisticamente il film è sobrio e discreto. La colonna sonora del grande compositore Joe Hisaishi, incentrata sulle notevoli esecuzioni al violoncello dei brani di Schubert nell’interpretazione di Pablo Casals, è efficace senza diventare mai troppo invadente. L’uso della correzione digitale nella fotografia dei paesaggi è quasi impercettibile. E’ lo scorrere del tempo e della stagioni, il volo delle anatre, o il risalire dei salmoni in un fiume limpido a scandire i tempi della narrazione. Okuribito, non parla di crisi, di lavoro, o di morte, ma è un canto di vita e amore, che ci culla e ci conforta.