Detroit Metal City

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detroit metal cityL, direttamente dalla saga di Death Note, cala i panni dell’emo nerd androgino e diventa un caratterista degno del Bruno di Sacha Baron Cohen in quanto a queerness e solare gaiezza, per poi diventare segretamente un (parodico) metallaro tanto improbabile quanto anomalo.  Il film è Detroit Metal City, tratto dal manga best-seller di Kiminori Wakasugi, e il regista è Toshio Lee, sconosciuto e sconoscibile in quanto mestierante televisivo scelto misteriosamente per questo progetto tanto più grande di lui da esserne assorbito: il risultato è un film senza impronta registica, il ritorno di un compito registico tanto indegno come quello di inquadrare e riprendere nel modo più neutrale e classico (barra televisivo) possibile, senza possibilità di ricerche formali o concettuali che rendano il film il lavoro di un autore piuttosto che l’ennesimo prodotto high concept che espande il suo dominio anche in campo cinematografico. Di esempi così ne abbiamo a raffica, a cominciare dai già citati Death Note di Shusuke Kaneko fino a Nana di Kentaro Otani. Il difetto è sempre lo stesso: sono opere che partono immediatamente in svantaggio se confrontati coi rispettivi manga, e questo andrebbe anche bene se soltanto non fossero film che puzzano di plastica, di inutilità perché dati in mano a registi incapaci di dare tono e caratteristiche, evocazioni e idee. Persino Hollywood ha capito la necessità di una mano solida dietro i comics movie (pensiamo al Raimi di Spiderman o al Nolan di Batman), eppure il cinema nipponico continua insistendo nel trasporre i propri manga di successo tramite registi addomesticati presi dal canile più vicino (la tv), perché in fondo in fondo chi se ne frega se poi il film sarà brutto, il prodotto è così famoso che guadagnerà comunque. Viene dunque da chiedersi cosa ne sarebbe stato di un mondo come Detroit Metal City se fosse stato dato ad auteurs come Sono Sion, che con Hazard ci ha dimostrati come muoversi sapientemente in periferie costernate da musica underground. E ancora: Shunji Iwai? Colui che, probabilmente, nel passato recente del cinema giapponese ha dimostrato più di chiunque altro la forza della musica complementare alla cura dell’immagine e dell’estetica cinematografica. E invece, ci tocca la visione di Toshio Lee, incapace persino di inquadrare un concerto metal come si deve, il più delle volte accontentandosi di statici campi medi, quando invece occhi e orecchie richiedono il grezzo dinamismo dell’immersione nel pogo più caotico. Quello che manca in Detroit Metal City è quell’odore particolare che si sente fuori dai locali rock più demodé, quell’atmosfera che vira al grigio ed esplode a suon di distorsioni jaguar, quella sensazione lercia di sudore mista ad allucinazione narcotica. E invece Toshio Lee concepisce un’opera dalla pulizia cristallina da far risultare falsa ogni sua singola scena, tende al demenziale senza però possederne la verve esplosiva (come invece accadeva in Brass Knuckle Boys di Kankurô Kudô), e appoggia gran parte delle responsabilità a Ken’ichi Matsuyama, che già come con L, non interpreta un personaggio, bensì uno stereotipo visivo (in questo caso, due).