Dragon Wars

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Dragon WarsD-War era probabilmente il film più atteso dell’anno e l’aspettativa era legata in primis all’anticipo con cui si era iniziato a promuovere l’evento, già quattro anni fa. Da allora erano circolate solo foto e teaser che mostravano una sorta di demo degli straordinari effetti speciali digitali impiegati, senza apparente ombra di esseri umani, personaggi, protagonisti, storia, facendo addirittura ipotizzare un falso storico. E invece il film è al fine giunto, ma si è in parte rivelato come una delusione. Il meglio dell’opera era già stato mostrato interamente nei vari trailer ed è lo stato dell’arte del cinema catastrofico applicato ad un’estenuante invasione di sauri mastodontici in piena Los Angeles. Ma per giungere a quella sequenza, impressionane, straordinaria e che dimostra come sia possibile produrre colossal competitivi rispetto ad Hollywood anche al di fuori di Hollywood, bisogna fare davvero una bella fatica. Infatti, dopo una premessa ambientata in un passato storico sudcoreano il film rivela tutta la sua ruffiana tendenza export; l’intero metraggio è ambientato a Los Angeles e interpretato da (pessimi) attori nordamericani. La regia di base è televisiva e pallida e decolla solo quando viene ibridata dal digitale. Il soggetto si rivela un favolone infantile ma indirizzato ad un pubblico più adulto e possiede un senso del fantastico e del meraviglioso tipicamente anni ’80, pregiato dal frutto delle tecnologie digitali del nuovo millennio, ma che quando avvicenda armature ed effetti tradizionali si attesta però sui livelli di un tokusatsu di seconda scelta. Lo sviluppo narrativo è barcollante, privo di qualsivoglia continuità narrativa e spaziale, avanza per accumulo di elementi visivi come ne Il Signore degli Anelli e funziona praticamente solo quando è baciato dal digitale; in questo senso le sequenze riuscite e sorprendenti sono davvero numerose. Dal drago serpentiforme che si abbevera in una piscina o che si ciba di un elefante allo zoo, fino al già citato assalto a Los Angeles dove mezza città viene rasa al suolo, ciurme di elicotteri abbattuti da draghi volanti e carri armati fatti deflagrare dai colpi esplosi da dei sauri dotati di cannoni innestati sul dorso.
Ogni 500 anni un Imoogi del male (sorta di stadio biologicamente precedente del drago, di matrice coreana) cerca di catturare una ragazza prescelta, dotata del potere, al compimento dei suoi 20 anni, di rilasciare un’aura dalla capacità di donare la forza assoluta evolutiva al drago bianco divino. A proteggere la ragazza, l’incarnazione di un guerriero allertato da un saggio che si ripresenta di era in era. Se la prima guerra si era tenuta in Corea del Sud ed era terminata con un nulla di fatto (il suicidio della coppia), il nuovo round è destinato a tenersi a Los Angeles dove la biondina insipida cacciata dal drago è difesa da un reporter che aveva ricevuto un presagio del suo destino durante l’infanzia da un vecchio antiquario.
Dietro la regia, si cela il nome di Shim Hyung-rae, uomo a suo agio con le creature mastodontiche, visto che era il colpevole anche del pessimo 2001 Yonggary, mentre la produzione coreana dirige un film già di base rivolto ad un pubblico occidentale, anche se si è rivelato un monumentale campione di incassi in patria segnando un record nella prima settimana di proiezione. Alla fine però, come spesso accade in questi casi, una volta tolta la luccicante confezione intorno, D-War rivela tutti i propri limiti, e volendo fare dei discutibili paragoni artistici, il mostro vorace di The Host si divora i draghi di D-War in un sol boccone.

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