Dynasty Warriors

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Annunciato, rimandato, protrattosi per anni, e infine uscito con esiti poco esaltanti, Dynasty Warriors è uno di quei prodotti deformi sbocciati dal presente cinematografico cinese.

Sorta di anomala co-produzione tra Cina e Hong Kong, girato in Australia, tratto dal mastodontico videogioco omonimo giapponese in nove capitoli pubblicati in 25 anni, giocabili su 18 tra console e dispositivi, sviluppato e distribuito dalla Omega Force / Koei. E a sua volta fortemente ispirato al classico letterario Il Romanzo dei Tre Regni, già alla base, ad esempio, del dittico di John Woo, La Battaglia dei Tre Regni (Red Cliff).

Il risultato finale? Sembra un film di Hong Kong che ci prova ma non ci riesce. Ci prova ad essere uno dei nuovi blockbuster mainlander ma con una resa visiva che rimanda agli effetti digitali di Storm Raiders et similia; roba gradevole ma del 1998 e con effetti decisamente superati. Il problema a monte stavolta, oltre alla solita piaga della sceneggiatura, è la regia di Roy Chow. Ma se in questo caso, in via del tutto eccezionale, possiamo passare sopra al caotico profluvio di eventi visto che rimanda proprio per tradizione ad un corrispettivo ormai codificato presente in tanti wuxia e fantasy di Hong Kong classici, l'inelegante e chiassosa regia è abbastanza imperdonabile.

Chow non è mai stato regista particolarmente rilevante (sua la regia di Nightfall e Rise of the Legend), anche se gode di una certa fama; ma in questo film è perennemente dietro ad un “vorrei ma non posso”, ad un voler sorprendere senza avere i mezzi adeguati (visivamente è anni luce indietro ai livelli raggiunti dai grandi film popolari cinesi) e ad un'attenzione smodata a rendere comunque il più possibile inoffensiva la violenza che serpeggia lungo sconfinati campi di battaglia cosparsi di carne da macello. Censura? Improbabile, nel cinema cinese si vede di ben più sanguinoso. Se poi ci aggiungiamo un cast discontinuo (lo spettatore empatizza per l'intero film per quello che apparentemente è il villain), l'assenza di un finale (il film si apre a uno o più seguiti per coprire altre sezioni dell'origine letteraria), delle svolte casuali e senza senso, una commistione poco equilibrata tra dramma e commedia che da una parte emana nostalgia del narrativamente liberissimo cinema di Hong Kong ma dall'altra lo rivendica fuori tempo massimo, il film non ne esce nel migliore dei modi. A uscirne con dignità come al solito sono Louis Koo e Lam Suet in due interpretazioni efficaci. 

Certo, poi ci sono cavalli che sgommano sui tetti tipo motociclette, un inseguimento in cui l'inseguitore per fermare l'inseguito rade al suolo una montagna con un colpo di lancia, centinaia di corpi lanciati in aria con la spada e una sequenza di scontro mastodontica con così tanti elementi, fumo, raggi energetici, esplosioni, lampi e altre amenità da sfiorare la psichedelia, sequenza che raramente si è vista all'interno di un film. E fortunatamente non annoia e ha anche diverse manciate di idee inventive, dall'imbarazzante all'esaltante, che lo rendono una visione piacevole. Ma il cinema, quello proprio non c'è.