Eros - La Mano

Voto dell'autore: 3/5

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A coloro che hanno assistito all’anteprima assoluta, in quel di Venezia 2004, del film-evento a sei mani Eros, sarà sicuramente balenata una domanda: che diavolo ci fa il mediometraggio di Wong Kar-wai in mezzo a questa brodaglia? Lo iato tra il segmento iniziale del regista che ci aveva stregati con In the Mood for Love (e con i film precedenti) e gli altri due episodi del trittico (il divertito ma impalpabile sketch – tirato un po’ per le lunghe – di Steven Soderbergh, e l’inqualificabile pasticcio cochon firmato Michelangelo Antonioni – di cui, spiace ammetterlo, non rimane altro, per l’appunto, che la firma) è talmente evidente, talmente abissale, da legittimare qualsiasi rivendicazione di estraneità rispetto all’opus nel suo complesso. Spiace che un piccolo gioiello come questo The Hand – La mano rischi di incorrere in spiacevoli sottostime critiche a causa della zavorra che è costretto a trascinarsi dietro. Ma tant’è, questi sono i rischi insiti nelle coproduzioni internazionali e nei lavori realizzati su commissione.

The Hand possiede un solo grande difetto: essere arrivato dopo In the Mood for Love. Essendo in buona misura un ricalco del film precedente, sia nella forma che nelle atmosfere e nello sviluppo del plot, questo piccolo film vive della luce riflessa del fratello maggiore, si confonde con esso, e – purtroppo – alimenta fastidiosi sospetti di accademismo. Sospetti non del tutto infondati, ammettiamolo pure, ma esaurire in tal modo il discorso e le causali messe in gioco da Wong nel suo lavoro sarebbe un peccato mortale.

Quello di Wong Kar-wai è un affresco sull’amore non manifesto che si va via via componendo, opera dopo opera (attendendo al varco 2046), attraverso infinite variazione sui medesimi tòpoi. La passione inesplosa tra il timido sarto e la prostituta d’alto bordo (interpretata da una magnifica Gong Li) di The Hand è il riflesso della pudica love-story fra Mr. Chow e Mrs. Chan nel film precedente; come questa, si manifesta attraverso gesti interrotti, silenzi, sguardi che non riescono a incontrarsi; e allo stesso modo Wong asseconda la timidezza dei suoi personaggi (che forse è la sua stessa pudicizia, il timore di far deflagrare la passione e farla bruciare in pochi istanti, come succedeva ai due esuli di Happy Together), scandagliandone i volti e rinchiudendoli in spazi sempre più angusti, soffocati da scenografie avvolgenti e da costumi di un’eleganza estenuata (ancora una volta tornano alla memoria le mises di Maggie Cheung nel film precedente. Il film abbonda di primissimi piani, particolari (mani, occhi, sezioni di viso), dettagli… Questo perché The Hand è, ancora una volta, un film sulla non pienezza, sull’incapacità di vivere appieno i propri sentimenti. L’eleganza formale della messa in scena sostanzia un discorso metaforico incentrato sull’elusione delle emozioni a esclusivo vantaggio delle convenzioni borghesi e dell’etichetta che esse impongono. Ne viene fuori un mélo che in realtà è un antimélo, capace di ribaltare tutte le convenzioni del genere, e di piegarle a un’immagine del mondo di assoluta, perfetta stilizzazione. Per questo The Hand può essere considerato un piccolo capolavoro incompiuto, la cristallina traduzione in immagini di una poetica di ben più ampio respiro, che avrebbe meritato uno sviluppo da lungometraggio.
La fotografia, al solito preziosissima, è del fido Christpher Doyle, mentre le splendide musiche – udite udite – sono addirittura di Peer Raben, un tempo collaboratore abituale di un certo Rainer Werner Fassbinder… Come dire: tutto torna…