Kawashima Yoshiko

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Kawashima Yoshiko, come adorano chiamarla alcuni, la Mata Hari asiatica, una donna forte, emancipata e libera, conficcata a forza dai traumi e dalle ferite morali in abiti maschili, orgogliosa figura storica di innegabile suggestione. Una figura femminile sfaccettata Tsuiharkiana, una donna forte alla Patrick Tam, ma la sua altalenanza tra cultura e storia cinese e giapponese ne hanno fatto un simbolo immediato e logico del cinema di Eddie Fong (non casualmente sceneggiatore del Nomad di Tam e produttore esecutivo di Dangerous Encounter di Tsui). Cinese di nascita, spia per i giapponesi si reputava libera e sopra le parti rincorrendo una corsa disperata verso l’autodistruzione come deriva e reazione ad un mondo irrefrenabile e lesivo, aspirando forse solo ad una felicità e spensieratezza già preventivamente negata dalla storia e dalla politica. Ad interpretarla Anita Mui in uno dei ruoli più intensi e sfaccettati della sua carriera e sicuramente in quello più morboso e sensuale. Fong dirige un’opera cinerea e funerea, cupa, con un respiro europeo della messa in scena e un impianto del quadro più nipponico, sferzato da alcune coreografie action (rare) di chiara matrice hongkonghese e di rara pulizia formale e fluidità. Il nome di Fong va riconsiderato e degnato della giusta posizione che mai gli è stata donata negli anni. Il suo cinema non è così lontano qualitativamente da quello di Tam che in più ha forse solo la sperimentazione ardita e avanguardistica nel campo del montaggio; la coerenza di Fong e le sue tematiche dimostrano un innato talento e qualità, continuo anche nelle sceneggiature scritte per terzi. Forse il più autore tra gli autori hongkonghesi dell’ultimo trentennio.

Il film narra la vita della donna e i vari movimenti storici che scorrevano alle sue spalle in una sceneggiatura complessa, stratificata e colma di passaggi chiave abbastanza complessi per uno spettatore non in possesso di una base storica relativa. L’infanzia negata, lo stupro, il ruolo imposto, le strazianti storie d’amore, la vita da spia, la reclusione; Il tutto condito dagli occhi della Mui che magicamente passano dal candore infantile della giovinezza alla potenza dominante del processo in cui –custode di segreti inenarrabili- riesce a sferzare sotto il proprio sguardo l’intera corte. Il finale è straziante e le ultime gocce di film riescono ad evocare il finale dell’Edipo Re pasoliniano.

Un film non facile, ma un’opera di straordinario rigore e spessore, crogiolo del talento di un nugolo di grandi nomi del cinema locale, dalla produzione di Teddy Robin Kwan, alla cupissima fotografia di Jingle Ma (futuro regista di Tokyo Raiders), dalla sensibile sceneggiatura di Lilian Lee (Dumplings, Green Snake) alle coreografie marziali del veterano Kung Hak On. Un’ultima menzione all’interpretazione controllata e funzionale di Andy Lau nei panni di un uomo/amante/combattente il cui patriottismo, la forza combattiva e l’energia non riescono ad evitare di essere travolti dalla forza della donna.