Last Life in the Universe

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Last Life in the UniverseE’ maturato con una rapidità allarmante il cinema di Pen-ek Ratanaruang e sembrano passati millenni dall’epilessia rivoluzionaria del suo esordio Fun Bar Karaoke. Quella che nel primo film era una esagitata e consapevole sperimentazione stilistica chiassosa e urlante non si è placata, venduta o autorializzata, ma si è semplicemente plasmata epidermicamente sul tessuto narrativo senza però trascurare continui deragliamenti improvvisi e elettrizzanti nei confronti della percezione filmica del pubblico. Ovviamente sono cambiati i tempi e quindi se all’epoca si trattava di urlare con le immagini per codificare e annunciare la rinascita di una cinematografia, oggi lo stile libero e ardito si mette al servizio dell’opera. Se la regia è pacata, lenta e fluida nei movimenti, colma di totali, classica, con uno stile prossimo a quello di Kiyoshi Kurosawa è nei minuti e quasi impercettibili spostamenti sull’asse della macchina che si nota una voglia di non arrendersi ad un linguaggio codificato ma suggerendo sempre per indizi. Al contempo la partitura audio straripa sempre di scena in scena, discreta e silente, ma invadendo spazi e tracce sonore; il mare soprattutto, il cui sciabordio diviene vero set occulto sullo sfondo, quasi esclusivamente sonoro, dipingendo l’ennesima Thailandia decadente e spersonalizzata, un urbanismo violento e il vecchio urbanismo semi-rurale ormai decadente. Esemplare è la villa della protagonista, lussuoso esempio di ricchezza e architettura ormai ridotta a vessillo di una decadenza morale e di un disincanto sentimentale, trasformata in un altro da sé, in un “Viale del Tramonto” Wilderiano (la piscina è una vasca vuota e in rovina dove passeggiano cani, crescono erbacce e si stendono panni). E poi il suono acuto dei telefoni e dei campanelli di casa, segnali continui atti al turbamento delle vite altrui e mai portatori di felicità ma sempre di ulteriori conflitti.

Non poteva che uscire un film immenso radunando il senso di cinema di Pen-ek, la produzione di Nonzee Nimibutr, la fotografia di Christopher Doyle, e un cast che annovera –oltre a Asano Tadanobu come protagonista- la presenza attoriale del regista culto Miike Takashi e dell’attore altrettanto di culto Riki Takeuchi. E sembra proprio di vedere un film di Miike, filtrato attraverso la sensibilità thai di Pen-ek, a partire dalla figura dell’outcast senza radici, catapultato in un universo che non gli appartiene.

La storia infatti mostra la vita di Kenji (Asano Tadanobu), paranoico bibliotecario giapponese in Thailandia con una ripetuta tendenza al suicidio e delle amicizie nell’ambiente della yakuza. Dopo aver abbattuto un killer (Takeuchi Riki) che a sua volta aveva ucciso il suo “fratello” (immagino che il termine “fratello” sia utilizzato nell’accezione di “aniki”, ovvero compagno di famiglia criminale) nota una ragazzina che dopo avere litigato con la sorella lo blocca nell’ennesimo tentativo di suicidio salvo essere investita ed uccisa da un’auto di passaggio. Così Kenji inizia a frequentare la sorella della defunta, ma una ciurma di gangster dal Giappone sono giunti in Thailandia per abbatterlo. Il finale criptico e polisemico ha fatto supporre numerose e assolutamente diverse (e improbabili) interpretazioni.

E’ una Thailandia asettica e calda, in cui un personaggio non riesce a comunicare, parla in giapponese con una ragazza che parla thailandese mentre sullo sfondo un corso di lingua inglese continua a ripetere frasi standardizzate tra cui “sono a casa”. Un Nomade introspettivo permeato dagli echi del Nomad di Tam.
E’ un film sussurrato, straordinario visivamente e rigenerante, farcito di indizi, strizzate d’occhio (un poster di Ichi the Killer mostra il personaggio di Kakihara interpretato proprio da Asano Tadanobu mentre Kenji (interpretato dallo stesso attore) ci passa davanti), idee, visioni.
C’è poco altro da scrivere, un’opera del genere va vista, pretende un abbandono dello spettatore di fronte ad un delizioso modo di narrare. Il film ha fatto il giro dei festival (Venezia inclusa) ottenendo numerosi riconoscimenti.