Martial Arts of Shaolin

Voto dell'autore: 4/5
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Il 21 gennaio 1982 esce con grande successo il primo film di arti marziali, interamente realizzato con maestranze tecniche e artistiche cinesi. Diretto da Cheung Sing Yim, Shaolin Temple vede per la prima volta protagonista il quattro volte campione di Wu Shu,  Jet Li, la cui inarrestabile ascesa inizia proprio con questo film.
Da lì a poco, come prevedibile, esce con risultati quasi altrettanto felici il seguito Kids from Shaolin (aka Shaolin Temple 2, 1984), ancora diretto da Cheung. Visto però, che non c’è due senza tre, tanto valeva battere il ferro, di nuovo caldo, del tempio shaolin e questa volta il fabbro fu trovato ad Hong Kong. Solo che il fabbro era in realtà un artista di insuperabile capacità e destrezza, ossia il più grande regista di kung fu movie di tutti i tempi: Liu Chia-liang.
Martial Arts of Shaolin (1986, conosciuto anche come Shaolin Temple 3, ma le trame dei tre film sono completamente slegate tra di loro) è uno di quei film il cui valore, per ragioni diverse, va oltre i meriti impliciti dell’opera stessa.
Innanzitutto, è l’unica - a questo punto storica - collaborazione tra l’attore Jet Li e il regista Liu Chia-liang.
In secondo luogo, definisce l’idealtipo filmico di tutto quello che sarebbe seguito da lì a poco e fino ai giorni nostri, segnando un nuovo punto di partenza, i cui effetti vanno ben oltre la cinematografia asiatica.
Infine, per quanto riguarda il genere gongfupian, Martial Arts of Shaolin rappresenta il passaggio simbolico tra la vecchia scuola targata Shaw Brothers e la new wave. In altre parole, assolve la funzione che qualche anno prima avevano avuto Butterfly Murders (Tsui Hark, 1979), The Sword (Patrick Tam, 1980), The Enigmatic Case (Johnnie To, 1980) e Duel to the Death (Ching Siu-tung, 1983) per il genere wuxia.
Il film è quasi un rifacimento dell’originale o perlomeno la storia mostra parecchie similitudini, mentre si differenzia totalmente per quanto riguarda un altro aspetto, ma ci arriviamo tra poco.

Anche in questo caso abbiamo il giovane orfano educato nelle arti marziali dai monaci shaolin, che nutre un profondo odio nei confronti del despota di turno, il quale (ovviamente) aveva fatto uccidere i suoi genitori anni prima. Insieme ad un gruppo di ribelli tenta di vendicarne la morte.
Come sempre il cammino del protagonista oltre all’avanzamento nelle tecniche di combattimento, rappresenta soprattutto una crescita morale e spirituale. Va detto però che la trama di Martial Arts of Shaolin, esposta in maniera piuttosto confusa e che fatica a mettersi in moto, è l’aspetto meno interessante (e coinvolgente), non raggiungendo certamente la profondità tematica delle opere precedenti del regista. Liu non rinuncia però ad inserire qualche elemento dei suoi - in primis il discorso sull’autenticità cinematografica delle arti marziali - con particolare riferimento a Challenge of the Masters (1976), The 36th Chamber of Shaolin (1978) e Martial Club (1978).
Il film ha i suoi punti deboli, ma la ragione per cui vederlo, sta naturalmente tutta nelle coreografie e nella messa in scena, tipicamente precisa e funzionale all’azione. Rispetto a Shaolin Temple, le movenze acrobatiche del wu shu si mescolano con le tecniche tradizionali (Hung Gar e Wing Chun), a cui Liu ha fatto sempre riferimento. Le coreografie, estremamente dinamiche e complesse, in parte puntano maggiormente sull’effetto visivo che alla funzionalità delle mosse, riuscendo così però a valorizzare ancora di più le straordinarie (e reali) capacità marziali degli interpreti. Molti di questi all’epoca facevano parte della squadra Wu Shu di Jet Li e sono presenti anche nei primi due capitoli della trilogia.
Con un budget a disposizione sicuramente più elevato del solito, Liu passa dagli angusti spazzi della Shaw Movietown, alle vaste location esterne cinesi (il film ha - insolitamente per il regista - un gran numero di riprese in campo lungo), catturandone in pieno la bellezza. L’imponente paesaggio fa da sfondo ad alcuni dei combattimenti più spettacolari mai visti nel genere. La lotta sulla muraglia cinese, quella nella Città proibita e soprattutto il finale su un battello (che bisogna vedere per crederci) ancora oggi, rimangono pezzi memorabili di bravura registica, tanto da poter essere considerate tra le cose migliori mai girate da Liu.

In poche parole, Martial Arts of Shaolin, riunisce in sé il meglio di due forze creative - sia cinematografiche che marziali -, quella di Hong Kong e quella Mainland, per un film dal respiro epico che ha fatto storia.
In retrospettiva risulta curioso notare, come in un momento di crisi - il genere ad Hong Kong a metà degli anni Ottanta era virtualmente finito -  un film che nasceva dall’influenza delle pellicole shaolin lanciate negli anni ’70 proprio da Liu (prima come coreografo per Chang Cheh, poi - con risultati ancora superiori - in proprio), abbia ridato vigore al genere, traghettandolo in una fase successiva, quella di inizio anni Novanta (che vede Jet Li protagonista assoluto).
D’altronde, l’abbiamo ripetuto più volte in questa sede e continueremo a farlo sino alla noia, l’importanza fondamentale (e spesso pionieristica) per il cinema di arti marziali, che ha avuto il regista di Guangzhou non è ancora, neanche lontanamente, riconosciuta come dovrebbe.
Ritornando al film, se proprio vogliamo trovare qualcosa di cui lamentarci, questo non può essere che l’uso della main theme, un pezzo pop talmente zuccheroso da stroncare un diabetico e che purtroppo invade di continuo la colonna sonora.
Per onestà critica, va detto che il film, proprio per via della ricchezza concettuale, probabilmente può essere apprezzato soprattutto da chi ha una certa confidenza con il genere e con la storia cinematografica di Hong Kong degli ultimi trent’anni. In ogni caso, Martial Arts of Shaolin rimane un classico imperdibile del cinema di arti marziali.
Liu Chia-liang con questo film chiude definitivamente il suo rapporto con la Shaw Brothers - tornerà nel 2002 per dirigere Drunken Monkey - e non girerà un film di arti marziali fino al 1994, anno in cui lascerà, ancora una volta, un segno indelebile con Drunken Master 2. Questa però, è un’altra storia …