Murder on D Street

Voto dell'autore: 3/5

VOTA ANCHE TU!

InguardabilePassabilePiacevoleConsigliatoImperdibile (2 votes, average: 3,50 out of 5)

Murder on D StreetAkio Jissoji ha realizzato questo film nel 1997, attratto ancora una volta dal fascino dell’opera dello scrittore Edogawa Rampo, tre anni dopo A Watcher in the Attic.
Edogawa Rampo, pseudonimo di Hirai Taro è stato uno dei più prolifici romanzieri del mistero e uno degli scrittori più noti del panorama letterario dei primi del Novecento in Giappone. Suo, unica storia pubblicata in Italia, La Belva nell’Ombra. Si ispirava molto spesso al modello occidentale rappresentato da Allan Poe e Conan Doyle, costruendo il personaggio dell’investigatore Akechi Kogoro, che abbiamo visto protagonista anche negli altri due film presentati a Udine (Far East Film Festival 2006). Il sodalizio riuscito sostanzialmente tra Jissoji e le storie di Rampo ha dato esiti altalenanti, spesso particolarmente originali nell’uso delle  immagini, meno efficaci narrativamente.
Opinione corrente tra gli addetti e anche personale è che i racconti di Rampo non forniscano, purtroppo al regista materiale sufficiente e ricchezza di spunti tale da sostenere la durata di un lungometraggio. In effetti è così. La trama è esile e il film, D Zaka no Satsujin Jiken ne è un esempio perfetto.
Jissoji stesso ammette di amare fortemente le cose che non hanno uno scopo, una direzione verso cui tendere, i film che non portano avanti una tesi.
Paradossalmente però, quello che ci affascina maggiormente di questo film, non è assolutamente l’intreccio, ma la ricostruzione visivamente rigorosa e razionale, tutta virata sui toni del giallo, di un mondo morboso, in pieno disfacimento morale e materiale. D’altro canto la vicenda si colloca, non è un elemento del tutto trascurabile, a mio avviso, in quel periodo di incubazione che precede l’avvento e l’ascesa del fascismo giapponese.
Ma c’è anche di più, c’è la profonda convinzione dell’intrinseca malvagità della natura umana.

Siamo a Dangozaka, quartiere popolare di Tokyo nel 1927. Questa zona della città rimarrà il centro dell’azione durante tutto il film. Tokiko è una libraia antiquaria di mezza età, ma ancora molto bella, dedita alle pratiche sadomaso. La donna interpella Seiichiro, abilissimo falsario, per farsi dipingere delle copie dei dipinti di Shundei, artista che l’aveva usata come modella per i disegni più significativi che ritrae una fanciulla nuda legata e torturata.

L’ambiguità di Seiichiro, le sue latenti tendenze omosessuali, la sua progressiva identificazione con la protagonista dei ritratti, una sorta di discesa agli inferi, rendono le atmosfere cupe e claustrofobiche dell’originale letterario, ed è questo aspetto ad attrarre maggiormente chi guarda. Non dimentichiamo che lo spettatore per Jissoji resta sempre un potenziale voyeur, che spia l’intimità dei personaggi. Ed è proprio la parte iniziale, quella in cui penetriamo in questo universo di erotismo malato, la parte meglio riuscita. La trama, la soluzione dell’indagine e del caso, colpiscono forse di meno, anche se il confronto tra il detective e il colpevole è molto ben giocato, in particolare i due interrogatori, a sequenze alternate a cui sono sottoposti i due sospetti. Jissoji sa utilizzare gli effetti sonori e le penombre con grande efficacia. Non ci sono praticamente esterni. Le strade e i negozi del quartiere, il traffico, sono riprodotti con dei modellini in scala, sorta di teatrino ambulante, all’inizio di ogni scena.
Murder on D Street non è un giallo in cui contano il delitto e il colpevole, ma in cui prevalgono l’analisi delle motivazioni profonde e il ritratto dell’assassino, altro tema caro al cinema di Jissoji e a Rampo, di un’artista che si fa intrappolare e fagocitare dal suo stesso amore per la bellezza, per l’arte che invece deve essere distacco, assenza totale di passione e di emozione. Tanto più l’artista è lontano e si astrae da ciò che vede, migliore sarà il risultato che otterrà, ma tanto più si farà irretire irrimediabilmente da ciò che deve creare. Proprio questa è la sua più grande frustrazione, non potersi avvicinare pena la distruzione di se stesso.