Kill Zone: Paradox

Voto dell'autore: 4/5

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Per chi volesse assaggiare per un attimo i sapori della vecchia cucina di Hong Kong ci pensa questo film a rimettere tutti i tasselli al loro posto. Dopo SPL II: A Time for Consequences (Kill Zone - Ai Confini della Giustizia) del 2015 veniva subito annunciato un terzo capitolo intitolato SPL III: War Needs Lord che avrebbe confermato i nomi alla regia e produzione. Di questo si perdono le tracce e nel mentre sopraggiunge Paradox che viene rinominato in extremis come terzo capitolo ufficiale mettendo però Wilson Yip (Ip Man) alla regia e Soi Cheang (The Monkey King) in produzione.

Terzo film di nuovo svincolato dalla continuity narrativa ma che riconferma tanti nomi e simboli della “saga”. Come nel precedente film ci troviamo in Thailandia, tra trafficanti di organi e poliziotti vendicativi, con Louis Koo, villain del secondo capitolo, che qua diventa protagonista assoluto. Conferma anche per Tony Jaa (in realtà in un ruolo marginale ma efficace) e Sammo Hung alle coreografie marziali.
Sarà che non c'eravamo quasi più abituati a certo cinema ma Paradox è davvero un oggetto da pelle d'oca, specie per i fans del vecchio cinema di Hong Kong.

Louis Koo, poliziotto, dopo aver perso la moglie in un incidente stradale accudisce sua figlia che prematuramente rimane incinta di un ragazzino. Le impone un aborto e allontana il giovane. La ragazza per reazione fugge in Thailandia ospite di un'amica. Lì un poliziotto virtuoso ha la propria moglie in dolce attesa. Mentre il sindaco della città in aria di ricandidatura ha un attacco cardiaco e necessita di un trapianto di cuore.

Tutti questi percorsi narrativi sono ovviamente destinati a incontrarsi e scontrarsi in un film macroscopicamente scritto meglio del predecessore (seppur non perfetto), pieno di flashback, montaggio alternato e svolte narrative al cardiopalma figlie del destino. Tralascia l'eccesso di azione e di barocchismo e si concentra di più sul melodramma, deflagrando in una violenza che poco ha della grazia aerea del kung fu ma più si avvicina a gesto inconsulto e animalesco. Louis Koo non è, infatti, un atleta e anziché tentare la strada dell'eccessiva controfigura si opta per scontri in luoghi angusti, fatti di leve, ossa frantumate e pugni in faccia, eliminando la levità e concentrandosi su impatto e pesantezza dei colpi (in parte simile agli esperimenti fatti da Sammo Hung nel suo recente My Beloved Bodyguard). Brutale, sanguinario, disperato, senza speranza, Paradox supera di gran lunga il precedente film e regala di nuovo un cinema di Hong Kong senza nessun compromesso e funesto a livelli monumentali, percorso dalle note languide e malinconiche della The Moon represents My Heart (titolo non così casuale visto come il cuore è simbolo e “oggetto” che con la sua presenza percorre l'intero film) di Teresa Teng. Wilson Yip, dirige il suo miglior film da almeno un decennio mostrandosi di nuovo a proprio agio con il dramma sanguigno urbano, particolarmente disperato.

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