Il Cacciatore di Vampiri

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Rigor Mortis«Molta gente dice che il mondo del cinema è ridicolo.

D'altra parte, la vita è ancora più ridicola.»

Ci vuole la sfrontatezza di uno men che trentenne per dare scossoni ad un cinema stantio come quello di Hong Kong nel nuovo millennio. Juno Mak, popstar, attore e soprattutto miliardario sempre sotto il mirino dei detrattori, ha quantomeno mostrato una incredibile intelligenza nel rigenerare la sua figura. Se qualche anno fa era il protagonista di un sottovalutatissimo, ma notevole, film come Let's Go! di Wong Ching Po, nel 2012 decide addirittura di andare dietro la macchina da presa con somma sorpresa di tutti. E non si ferma là. Chiama a co-produrre Shimizu Takashi, il responsabile di quel fenomeno transoceanico del J-horror che fu The Grudge, e decide di lavorare su uno degli archetipi cinematografici che l'ex-colonia ci ha regalato.

Il Jiang-shi è un cadavere riportato in vita dagli stregoni cinesi. Anche se spesso definito vampiro, lo è in maniera impropria visto che non c'è nessuna malattia o maledizione millenaria al colpirlo. Data la sua natura di dormiente viene prevalentemente attratto dai corpi vivi, dal loro respiro così come dal sangue, ed è costretto dalla sua rigidità a muoversi saltellando a comando degli stregoni che lo hanno creato. Negli anni è stato utilizzato soprattutto nella commedia, offrendo con la sua plasticità lo spunto per acrobazie a coreografi come Sammo Hung o artisti marziali come Lam Ching Ying. Il giovane regista invece decide di partire dall'altro estremo della bilancia, quello della melanconia più assoluta che solo negli anni '90 si era affacciata nel cinema dell'orrore cantonese e proprio in risposta -guarda caso- all'epifenomeno giapponese. Sembra allora programmatica la scelta del produttore giapponese, così come è programmatica la scelta della location: uno spettrale condominio popolato da anziani, folli e fondamentalmente fantasmi. Si tratta di un vero e proprio tentativo di ricollocazione dell'immaginario cantonese in un contesto postmoderno ovvero dopo la presa di coscienza che nulla meglio dei fantasmi aiuta a sviluppare il melodramma.

Il protagonista è quel Chin Siu-Ho oggi quarantenne, che da giovane fu la spalla dei poveri Ricky Hui e Lam Ching Ying nel seminale capostipite Mr. Vampire. Attore in disarmo, depresso da tragedie personali e incline al suicidio, va a parare proprio nella stanza 2442 dove viveva il personaggio interpretato da Kara Hui. Anche lei ne ha viste di tragedie in quella stanza che l'hanno portata alla follia e a vagare in perenne fuga per i corridoi del condominio. Questo lo sanno sia il taoista Anthony Chan che il suo rivale dedito alla magia nera Chuung Fat, due anziani coinquilini, ma anche due anziane glorie che nella saga dei Mr Vampire erano praticamente onnipresenti. Forse meno importante nell'economia della saga è stato Richard Ng, che si vede solo in Mr Vampire 3 e qui indossa i panni del gran vampiro, ma del cinema di quel periodo fu certamente una delle colonne. Persino quella sagoma di Billy Lau fa la sua comparsa. Si potrebbe davvero passare una giornata a fare riflessioni sul metacinema e la paratestualità nelle scelte di questo giovane ragazzo, ma il sottile gioco di produzione non è fine a sé stesso.

Tutti questi veterani scelgono di fidarsi e si fanno guidare, prendere per mano, da quello che per la maggior parte di loro potrebbe essere un figlio. Deve essere stata l'aria nuova che si respira sin dal primo minuto. Quell'inizio ricorda con una melanconica voice over l'inizio del già citato Let's Go!, come se la prima preoccupazione fosse proprio quella di spolverare i polverosi archivi del pur giovane cinema di Hong Kong. Un rinnovamento che prima ancora dall'ibridare i generi passa proprio da un nuovo approccio grafico che fa tesoro della piccola rivoluzione fatta in tal senso da Stephen Chow qualche anno fa in Kung Fu Hustle, volgendola al nero più livido. Juno Mak, forse aiutato dalla vicinanza al suo sodale Wong Chin Po, sembra realizzare più di tanti suoi colleghi blasonati che, se un rinnovamento si vuole attuare, allora bisogna ripartire proprio dalle basi del design senza timore alcuno di sbagliare. L'eleganza dei movimenti della camera orizzontale lungo i corridoi o verticale lungo le scale ottenuta con fluide gru, alquanto insolite per un regista agli esordi, va a parare lì dove registi molto tecnici avevano già portato il genere. Forse più del cinema dell'orrore giapponese viene in mente quello koreano da Kim Jee-Woon in giù, ma dalle parti di Hong Kong il piglio è autenticamente anarchico come ti saresti aspettato se l'anno fosse stato quel 1987 di A Chinese Ghost Story. Eppure Rigor Mortis è datato 2013 ed è come acqua nel deserto per chi quel cinema l'amò proprio per la capacità di sorprenderti con le invenzioni. Sono proprio le invenzioni a pompare sangue nel cuore pulsante di questo piccolo gioiello, che la critica unita sembra aver snobbato al Festival di Venezia dove è stato presentato. Forse sarà stato incomprensibile per chi ignora i Jiangshi, la loro iconografia e il putiferio saltellante di creatività che crearono. Lo sarà stato per chi non si sarà commosso a leggere la dedica finale «sui vostri passi» rivolta ai compianti Ricky Hui e Lam Ching Ying, ma davvero, se ancora adesso state ignorando questo cinema oggi accessibile a tutti, allora è soltanto colpa vostra.