Sinking of Japan

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Sinking of JapanEsiste attualmente (non è una novità a Hollywood) e a volte ottiene dei risultati ottimi, un nuovo sottogenere -definiamolo così un po’ presuntuosamente- il cosiddetto “catastrofico ecologico-ambientale”. Sembra che i registi e i produttori si divertano a realizzare attraverso effetti speciali mirabolanti le peggiori tragedie mai viste, tanto enormi di proporzioni, che non c’è nemmeno bisogno di preoccuparsi di costruire personaggi e trame, talmente risaputi e convenzionali da apparire addirittura tutti uguali, preconfezionati. Ora, il Giappone adora le disgrazie; provate a immaginare la torre del 109 (Ichimarukyu), grande magazzino multipiano di Shibuya, simbolo del consumismo adolescenziale, che crolla come fosse un gelato o una cartapesta, o i semafori di Ginza penzolanti, la torre dell’orologio, che da decenni scandisce il ritmo dell’occidentalizzazione giapponese, nella desolazione, sotto nuvoloni bigi e cupi. Niente di meglio, vero? Il massimo dello spasso vedere sprofondare il Giappone operoso e globalizzato. E difatti il film inizia con la rassegna dei tesori nazionali sulle note di una musica molto trendy; sembra un documentario sulle “magnifiche sorti e progressive” del Giappone moderno, coi suoi simboli artistici e storici e le masse di lavoratori che si accalcano ogni giorno: il Giappone degli stereotipi, visto da noi, il Giappone che sconfitto dopo la Seconda Guerra Mondiale si è preso la sua bella rivincita, diventando una potenza economica e tecnologica.

Ma passiamo oltre. Un terremoto spaventoso sconquassa Kagoshima, ed ecco apparire i nostri eroi; l’intrepida pompiere Shibasaki Kou si cala da un elicottero, e salva l’eroe e la bambina in pericolo.
Al sismologo Tadokoro (Toyokawa Etsushi) l’arduo compito di far accettare la scomoda verità al governo nipponico, rappresentato da un premier, copia dai capelli brizzolati di Koizumi e da una signora ministro a cui viene affidata la gestione dell’incredibile crisi.

Tadokoro è adeguatamente strapazzato e politicamente scorretto; ormai Toyokawa non recita altro che questo personaggio che tanto gli si attaglia, come una coperta di Linus. Shibasaki è sempre una ragazza costretta a diventare suo malgrado un maschiaccio e il protagonista si sacrifica per amor di patria. Ovviamente non manca la povera orfanella che ha trovato nei suoi salvatori una seconda famiglia.
Bene, adesso che abbiamo terminato con la serie dei luoghi comuni e degli schemi, forse possiamo cominciare con qualche spiraglio di novità. Ad esempio non si può non percepire una nota di chiaro e aperto antiamericanismo nel discorso pronunciato dal Primo Ministro prima della sua scomparsa durante un viaggio aereo. I giapponesi non amano gli happy end, non vogliono andarsene dalla loro patria di cui sono fieri e non temono la morte, resteranno nel loro paese anche se sprofonderà, fino alla fine.
A questo film non manca tutto sommato un certo sostrato ideologico e patriottico, molto più immediato e comprensibile per il pubblico giapponese, forse, che per quello straniero e che non basta a salvare un’operazione, dispiace dirlo, puramente commerciale.
Purtroppo, questo film è un pasticcio che manca di inventiva, composto solo di effetti speciali neanche così straordinari, ma è lo specchio di una tendenza che ormai tende a diffondersi sempre di più nel mercato cinematografico giapponese, sempre più preda di esigenze di marketing. Ormai gli adattamenti di matrice televisiva, senza nessun tipo di aspettativa se non quella di attirare in sala quanto più pubblico possibile -senza volere essere per forza snob- senza attenzione alla qualità, aumentano sempre più. D’altro canto il cinema è un’industria come molte altre, prima di tutto, e chi si accosta a questo genere non vuole altro che due ore di intrattenimento e questo non è necessariamente un brutto segno. Il brutto segno è che Nihon no Chinmotsu, Sinking of Japan, non diverte e non ha spunti interessanti, è fitto di lungaggini e dialoghi assurdi, potremmo dire, si prende troppo sul serio per quello che offre in realtà. Certo va preso in considerazione come esempio della situazione attuale del cinema nipponico, preso tra due fuochi, un cinema d’autore, comunque spesso troppo di maniera, e un cinema mainstream, che sforna nuovi prodotti di scarso valore in continuazione. L’equilibrio tra questi due estremi sarebbe l’ideale, ma non è facile da raggiungere.