Slave of the Sword

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Ennesimo figlioccio del wuxia post metodo Ching Siu-tung, in versione deriva sbilanciata verso le componenti sexploitation. Il tutto è uno sterile e di maniera florilegio di veli, vento, petali, ralenti, controluce affiancati alle invenzioni da manuale (ma ovviamente con uno stile ben più carente) del grande coreografo hongkonghese sopraccitato; duelli furiosi e atti alla totale disgregazione anatomica dei corpi, discontinuità spaziale, wirework ostentato. La sessualità patinata e softcore è puramente meccanica e mai tenta la strada del pop di lavori del calibro di A Chinese Torture Chamber Story o A Erotic Ghost Story. La storiella è un pretesto per un susseguirsi di sequenze lesbo o (in minore misura) etero e duelli bizzarri –o meglio- dati in mano a personaggi bizzarri. Rimane quindi un ennesimo clone che tenta la strada del puro genere senza ambizioni ma raggiunge solo la noia, anni luce lontano da prodotti invece riusciti e ben più di intrattenimento (pur essendo comunque derivativi) del calibro di Butterfly & Swords e The Three Swordsmen.

Cast delle grandi/medie occasioni con Max Mok (The Dragon Family), Jackson Lau e Joyce Ngai (The Chinese Feast), anche se il film probabilmente sarà ricordato soprattutto per la pruriginosa performance di Pauline Chan, morta suicida dieci anni dopo, nel 2002. Il regista ha alle spalle un background di prodotti medi e talvolta folli alcuni dei quali sicuramente cari a tanti fan del cinema di Hong Kong (Fantasy Mission Force, Golden Queen Commando), anche se qui la sua mano è stanca e neutra.