The Battle at Lake Changjin

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In coda ad un periodo vitale relativo a celebrazioni filmiche di alcuni anniversari legati a importanti eventi centrali della storia della Cina (pensiamo al fortunato filone dei My People, My Country...) arriva l'atteso Battle at Lake Changjin. Alla regia che doveva essere di Andrew Lau (ma già impegnato nel film a tema Covid, Chinese Doctors) tre nomi di altissimo livello: Chen Kaige (già alla supervisione di My People, My Country), Dante Lam (Operation Red Sea, The Rescue) e Tsui Hark (The Blade, Detective Dee e il Mistero della Fiamma Fantasma).

Operazione per certi versi analoga al precedente The Sacrifice (da cui riprende anche il protagonista, Wu Jing) che racconta vicende della stessa guerra di Corea dando il progetto in mano a tre diversi registi. Ma mentre nel film citato, ognuno si occupava di una porzione narrativa ben definita e consequenziale, in Battle at Lake Changjin l'intera opera è stata sviluppata esattamente come la guerra narrata; senza eroi individuali ma con una sforzo comune. Ogni regista era a capo di alcune crew con le quali dirigere porzioni svincolate di film sotto la supervisione dello sceneggiatore Huang Jianxin che fungeva da produttore esecutivo generale. Il tutto era poi montato in un unico progetto coerente.

Per lo spettatore più evoluto il film si risolve quindi in una sorta di quiz nel cercare di scovare quale singola scena o sequenza sia stata diretta e ideata dal singolo regista. Perché per il resto non ci sono sezioni diverse, capitoli o elementi a contraddistinguerle se non alcune dichiarazioni dei diretti interessati. Ecco quindi che veniamo a sapere come Tsui Hark, ferreo appassionato di sfide, si sia andato a cacciare nelle riprese sotto le reali bufere di neve a temperature proibitive in location reali. Certo, il nostro intuito ci fa pensare che il piano sequenza aereo mozzafiato nella pianura pietrosa con i due aerei nemici in volo e i soldati che si fingono morti tra i cadaveri maciullati e relativi split screen, porti la firma di Tsui, esattamente come il mexican standoff e bullet time tra due tank. Ma sono attualmente considerazioni del tutto arbitrarie.

Citavamo The Sacrifice perché per certi versi il film di cui parliamo sembra una fusione tra quello, per il tenore e la storia, e Operation Red Sea, per gli eccessi e il virtuosismo dell'azione. Dal primo prende la porzione più retorica, patriottica, celebrativa, dal secondo l'instancabile baraonda eccessiva e a tratti quasi incredibile nella messa in scena delle mastodontiche sequenze d'azione. Migliaia di comparse reali, di costumi, di oggetti, di mezzi e veicoli, di armi, un intero villaggio raso al suolo, pianure annientate dai bombardamenti, esplosioni, complessità coreografica a livelli mai visti, in un'opera mastodontica e che riporta in vita il concetto primordiale di colossal. Tutto è a livelli esponenziali, con intere vallate coperte di persone, veicoli, mezzi, uomini che si spostano lungo pendii innevati arrossati dal deflagrare del fuoco, scontri impari, frenesia ipercinetica, e un freddo così palpabile da raggiungere lo spettatore.

Il tutto ottenuto con un budget di 200 milioni di dollari (il più alto della storia in Cina) che nelle settimane ha superato ogni record rendendo Battle at Lake Changjin, prima il maggior incasso della storia della Cina alla sua uscita, poi il maggiore incasso di sempre per un film non inglese, che successivamente il maggiore incasso dell'anno nel mondo superato a dicembre solo dall'uscita del nuovo Spiderman.

Il tutto poggiando su una distribuzione di mercato estremamente ridotta e prevalentemente interna.

Lontanissimo dall'estetica ricercata e raffinata di 800 Eroi, opera bellica comunque urbana, Changjin sprofonda il conflitto in un contesto rurale dove a dominare è la natura spietata, il freddo, il gelo, la pietra e la fame estrema (esemplare la sequenza che alterna i soldati cinesi sotto la neve che si dividono delle piccole patate che devono durare giorni mentre nel campo militare statunitense si festeggia il giorno del ringraziamento con tacchini e abbondanza di cibi in contesti architettonici accoglienti). Al contempo l'azione è estremamente più popolare e esclusi alcuni tocchi sopra le righe, risente profondamente dei livelli raggiunti da Dante Lam nel suo Operation Red Sea con alcune sequenze in spazi angusti sorprendenti, degne rime di quelle in open space (dietro c'è anche l'action team di Stephen Tung Wai). E' proposta allo spettatore anche una curiosa sequenza che ne ricorda una simile del “vecchio” Police Story di Jackie Chan; nel film del 1984 l'attore radeva al suolo una baraccopoli durante un inseguimento automobilistico. Qui avviene la stessa situazione ma lungo un villaggio rurale disteso sul fianco di una montagna; ma a compiere l'abbattimento sono due tank che si rincorrono. 

Narrativamente siamo all'interno di un film estremamente corale, degno rappresentante della visione collettiva e sociale della storia cinese anche se la vicenda ha una figura identificativa (ovviamente interpretata da Wu Jing). Ma anziché cucirgli addosso il semplice ruolo di eroe (di eroi, e soprattutto martiri, nel film ce ne sono numerosi) tesse le vicende tese del suo rapporto con il fratello problematico che si è infilato “abusivamente” nell'esercito di resistenza, evidenziando quindi il senso di protezione di uno verso l'altro, a fronte di un terzo fratello già caduto in guerra. Lo spettatore viene quindi accompagnato in una visione inusuale e in parte innovativa della drammaturgia socialista cinese.

Con un cast di altissimo livello, incluso Tang Guoqiang che interpreta Mao Zedong (ruolo ricoperto almeno una ventina di volte tra cinema e tv in 25 anni), il film è estremamente popolare e celebrativo (nonostante non sia avaro di sequenze vigorosamente sanguinolente e perturbanti); va preso atto comunque del budget e di come sia un film fortemente voluto e commissionato dal governo e di come -nel genere- alcune dinamiche narrative, plastiche ed emozionali abbiano origini lontane e culturalmente fondanti.

Il conflitto, basato sulla storia reale, restituisce una versione semplificata degli eventi in cui il nemico è unico e rappresentato solamente dagli Stati Uniti invasori della Corea. In questo senso, come in tanto cinema americano, si usa la storia passata per parlare del presente. Questo è uno dei vari -e il più delle volte pretestuosi- motivi che ha prodotto in occidente una critica capace, di fronte ad un prodotto di tale livello, investimento e incasso, di (s)parlare solo di propaganda, a volte senza aver nemmeno visto il film.

Il che evidenzia un vistoso problema a monte (razzismo, ignoranza o consapevole propaganda?) all'interno dei media occidentali; e mentre il sopracitato The Sacrifice è stato bandito e vietato in Corea del Sud, sembra quasi nessuno sappia o ricordi il cinema americano sotto il Codice Hays, il maccartismo, le censure coloniali inglesi ad Hong Kong, il cinema italiano dal ventennio agli anni '60, finanche il cinema maoista del passato e situazioni analoghe all'interno di ogni singola nazione del mondo. Fortunatamente stiamo vivendo il passaggio ad un mondo multipolare e ha senso abbracciarlo, confrontarcisi, analizzare e fruire i film per le proprie qualità intrinseche e talenti interni e non svilendoli per la nazionalità di provenienza. D'altronde The Battle at Lake Changjin non è diverso da qualunque film bellico che fino ad oggi abbiamo visto, amato o odiato. Cambiano le bandiere, cambiano i nemici, cambia la storia, ma il film resta uguale. In questo caso non un capolavoro ma un colossal di intrattenimento e a tratti di onesta sorpresa. Il cinema non è razzista come alcuni spettatori. Godiamocelo.