The Blue Jean Monster

Voto dell'autore: 3/5
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The Blue Jean MonsterIvan Lai, il regista del film, se non il re, è almeno un principino della (s)exploitation made in Hong Kong, quasi una versione più timida e povera di un Nam Nai Choi (The Cat, Story of Ricky). Al suo attivo ha infatti una selva di titoli pittoreschi da Erotic Ghost Story 3 passando per Daughter of Darkness, The Peeping Tom, God.com e addirittura il nono capitolo della saga horror Troublesome Night, film bizzarri, fantasiosi, ludici, ironici e ispirati a chissà quale ragionamento contorto di marketing proveniente da chissà quale illuminazione brillante. In questo caso ci troviamo di fronte ad un filmetto trascurabile non fosse altro per il cast inedito e stimolante e per i contenuti talmente euforici e grotteschi da avvicinare l’opera a pietre miliari del nonsense del calibro di The Cat, Vendetta e via da quelle parti, ossia bruttura maculata di candore infantile canalizzata all’evocazione di divertimento irresistibile. Innanzi tutto il protagonista, Shing Fui On (scomparso prematuramente nel 2011), grande caratterista con all’attivo circa duecento film in meno di trent’anni di carriera, perennemente nel ruolo del triadoso villain di turno (come in The Killer) lo troviamo qua invece nel ruolo di un poliziotto buono sposato ad una virginea e buffa Pauline Wong (Web of Deception) sempre brava e bellissima.
L’uomo nel corso di una missione viene abbattuto da dei rapinatori. Ma la strana e incomprensibile alchimia tra un gatto che passeggia sul suo cadavere (!!!) e un palo della luce che gli crolla addosso inondandolo di elettricità lo riporta in vita con alcuni effetti collaterali; non presenta segni vitali, non sente dolori né ha stimoli, tant’è che dopo essersi dato dei colpi per provare l’assenza di dolore  mette mano ad una rivista pornografica per testare le altre “reazioni”. Combattendo contro un motociclista subisce la perforazione dello stomaco tramite un palo acuminato e da quel momento, nonostante si copra il foro con un assorbente femminile (visto che i cerotti non erano abbastanza grandi) il cibo che ingurgita inizia ad uscire di lì; così in una sequenza irresistibile dopo aver messo dei noddle -mangiati ed espulsi dal foro- in una ciotola deve assistere ad il suo coinquilino che affamato ne fa un boccone. Per sopravvivere -visto che cade fin troppo spesso in catalessi- deve inondarsi di energia e per farlo utilizza un ferro da stiro adeguatamente modificato. All’estrema resistenza fisica si abbina inoltre una potenza sovrumana, una invulnerabilità ai colpi e una conducibilità esemplare dell’elettricità. Dovrà affrontare i rapinatori che cercano di recuperare il denaro rubato, ora in mano ad una ragazzina finita in casa sua.
Su questo canovaccio si snoda tutta una pletora di battute idiote cantonesi, di barzellette razziste e derisioni di omosessuali, storpi, volgarità sull’aids e sul sesso “pregnant”. Nulla di strano, ovvio, in un certo periodo ad Hong Kong questi viottoli della narrazione erano routine. A metà film c’è pure un cameo di Amy Yip (Sex & Zen) e le sue “due armi d’ordinanza” vestita da coniglietta rossa che cerca di stimolare la sessualità dell’uomo, aizzata dalla moglie che lo crede gay. Shing Fui-on, imbarazzatissimo, la respinge con il distintivo da poliziotto come fosse una criminale. Esilarante. Gran finale in mano al coreografo Philip Kwok, a colpi di auto, asce, seghe elettriche, molotov, armi da fuoco e all’insegna di un divertimento eccessivo e spensierato, sciocco all’inverosimile, lungo le colline di un film bruttino e fiacco, ma nobilizzato da un’inventiva puerile e vulcanica.