The Crazy Family

Voto dell'autore: 4/5

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Quando ci siamo trovati davanti al film Visitor Q di Takashi Miike la prima cosa che ci siamo chiesti è stata: "ma come ha fatto la famiglia giapponese ad arrivare a questo livello di degrado?". La risposta è semplice, ce l'ha portata Sogo Ishii. 

Infatti The Crazy Family è una sorta di film speculare a quello di Miike, l'altro lato della medaglia, il prima. Ishii mette in scena la famiglia giapponese medio borghese perfetta e tutti i loro vizi e virtù, i gadget, le case linde e le manie di perfezione, gli oggetti superflui ma obbligatori status symbol e poi si diverte in un tempo relativamente breve a distruggerli e raderli al suolo fino alle fondamenta con una violenza e un cinismo esemplari. Così mentre una famiglia perfetta viene sgretolata, tramite un personaggio catalizzatore del male (il nonno, alternato poi al padre di famiglia e a ruota a tutti gli altri membri) quasi vent'anni dopo Miike si trova una famiglia disastrata e cerca di riscattarla e ricostruirla, di nuovo con la violenza, tramite un altro catalizzatore esterno, l'ambiguo "visitatore Q". Entrambi legandosi con esplicito affetto e debito al Teorema di Pasolini.

L'inizio del film è incisivo; in modo dettagliato viene costruito il "locus amoenus" della famiglia, la nuova casetta perfetta, geometrica, piena di superfici levigate e splendenti e tutti i riti legati al nuovo vivere in essa; ma subito, un pò come all'inizio di Velluto Blu di David Lynch viene accennato e introdotto un elemento perturbante a macchiare la visione immacolata del tutto, inequivocabile metafora di quello che verrà nell'ora e mezza successiva.

E nulla di più piccolo di un insettino trovato addosso al cagnolino della famiglia può essere spunto iniziale per lo sgretolamento paranoico e furioso dell'intero equilibrio famigliare. Lo sguardo duro e critico alla famiglia si allontana da quello antropologico di Imamura; d'altronde Ishii è il regista punk giapponese per eccellenza e quindi il suo approccio è diretto, frenetico, urlato, frammentario. Lo stile è vulcanico, e sia nei titoli di testa che in una sequenza sul finale, tutta "pixilation" e passo uno, anticipa sia lo stile del successivo Tsukamoto, che sorprendentemente un arcaico, artigianale (e involontario?) bullet time.

L'allegra famiglia Kobayashi arriva nella nuova casa, ma il figlio impazzisce a causa degli esami (per preservare la sua integrità si chiude in una piramide di vetro e neon, mentre si pugnala la coscia per tenere vigile la soglia di attenzione), la figlia minore è esagitata a causa di un provino, la madre è frustrata (e non solo sessualmente, ma soprattutto) e stufa di recitare il ruolo della perfetta mamma giapponese, e il padre fa il maestro di cerimonia trattando il nuovo appartamento come un figlio e tenendo in bilico precario l'equilibrio della struttura familiare. Al tutto si aggiunge il nonno ansiogeno e autoconvinto di un'invasione di termiti, tant'è che distrugge il pavimento della cucina e inizia a scavare per stanarle e annientarle.

Dopo un tentato suicidio/omicidio di massa è guerra tutti contro tutti; ognuno cerca di utilizzare i propri "poteri" e il proprio ambiente casalingo a proprio favore nella guerra di sopravvivenza. Memorabile un duello padre contro figlio, mazza da golf contro mazza da baseball. E anche il padre, armato di martello pneumatico tenuto ad altezza pubica, che attenta alla figlia in body, non può che rievocare una sequenza analoga del successivo Vibroboy di Jan Kounen e al contempo il ben più noto -di nuovo- Tetsuo di Shinya Tsukamoto. 

Lo sguardo adottato esula dal realismo; è uno sguardo cinico e grottesco, tutto amplificato e sopra le righe, perennemente accompagnato da musica di vago stile punk. Il film è stato prodotto dalla  Art Theatre Guild, già produttrice de La Cerimonia di Nagisa Oshima e Farewell to the Ark di Shuji Terayama, uscendo solo nelle loro sale, riscuotendo un discreto successo nonostante i giudizi tutt'altro che positivi della critica. E' stato presentato anche al Festival di Berlino, punto di partenza per la sua circolazione occidentale, ed è stato il primo dei suoi film ad avere una diffusione in Europa e negli Stati Uniti.

Con una produzione "ufficiale" alle spalle e senza la sua solita troupe, dispersa in altri luoghi, Ishii dirige il suo primo film attenendosi alle regole organizzative del cinema "professionale", scrivendo una sceneggiatura in modo classico e riuscendo anche a rispettare un piano di lavorazione.

Il film è basato su un soggetto originale del fumettista Yoshinori Kobayashi. Ishii che spesso si è definito un regista incapace di adottare uno stile riconoscibile e umanamente narrativo è evidentemente un uomo di cinema artigiano, che utilizza i mezzi a sua disposizione in modo intuitivo non accontentandosi mai di girare piazzando la macchina nel posto più facile. Ogni inquadratura deve inventare altrimenti il lavoro diviene frustrante. Ed è probabilmente da qui che deriva questo stile tra il semi amatoriale (non tutte le invenzioni funzionano, ma se non si sperimenta non lo si scoprirà mai) e il geniale/sperimentale/innovativo/frastornante.

Dopo questo film, tranne che per alcuni cortometraggi, il regista non riuscirà a girare un lungometraggio per ben otto anni.